“Sazio di giorni”: vita e morte nell'ultima opera di Yoram Kaniuk
Un pittore specializzato nel dipingere gente morta. È questo il protagonista dell'ultimo romanzo dell'israeliano Yoram Kaniuk, morto lo scorso giugno e che con Sazio di giorni (La Giuntina, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi) ha lasciato ai lettori una sorta di testamento spirituale, in cui sono presenti tutti i temi ricorrenti nella sua opera. Kaniuk è stato un grande scrittore, autore di quell'Adamo risorto, universalmente considerato il suo capolavoro, un viaggio in un manicomio, situato in un luogo desertico, costruito per i reduci della Shoah: fra quei folli c'è Adam Stein, ex pagliaccio ebreo e tedesco, che nei lager regalava un sorriso ai deportati, prima del loro ingresso nelle camere a gas. Un libro forte, drammatico, di grande impatto emotivo, tanto da suggerire nel 2008 a Paul Schrader l'omonimo film con protagonisti Jeff Goldblum, Willem Dafoe, Derek Jacobi.
In Sazio di giorni, il pittore dovrà confrontarsi con una vedova, la moglie del defunto che è chiamato a ritrarre: due vite che si incontrano, due personalità che dialogano sui propri vissuti. Un'opera che precede la morte dello stesso Kaniuk, quasi un modo per andarle incontro. Quel titolo,Sazio di giorni, è qualcosa a cui tutti aspiriamo, ossia morire con serenità, consci di aver vissuto una vita bellissima e piena: andarsene senza rimpianti e senza temere il momento finale, quello dell'ultimo respiro.
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Per il personaggio dipingere le salme diventa un modo per esorcizzare la morte, per imparare a guardarla negli occhi, aspettando con pazienza il proprio turno. Kaniuk racconta di questo momento di passaggio con estrema delicatezza, regalando al suo lettore delle perle memorabili, un suo ultimo dono intellettuale all'umanità. Resta da capire se sia davvero così facile superare il nostro terrore di esseri finiti, destinati prima o poi a tornare polvere. Perché è proprio questo il punto su cui riflettere: essere sazi di giorni è soprattutto accettare la nostra umana fragilità, i propri limiti, sapere che, tutto sommato, quella che abbiamo vissuto era l'unica vita per noi possibile.
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