Ritratto della generazione liquida. Intervista a Laura Campiglio
Uscito per Mondadori, Caffè Voltaire di Laura Campiglio è un cocktail frizzante, ironico, profondo, attuale. Dannatamente attuale.
Anna Violetta, il cui nome, ciascuno dei due, ha una storia personale, è una giovane donna; fa parte della generazione degli ultimi cento metri prima di cambiare prefisso in -anta. È una perfetta cittadina della società liquida, dove per lavorare ci si ritrova a essere frammentari, incerti e, soprattutto, precari. Anna Violetta ha otto collaborazioni, anzi sette, perché la incontriamo nel momento in cui ne ha appena perso una. La collaborazione.
Regna la confusione nella vita di Anna Violetta. Più che la confusione, regna l’obbligo a continuare ad adattarsi senza sosta alle nuove occasioni.
Con grande ironia, Laura Campiglio mette in risalto i punti deboli della nostra società spingendoci a riflettere sulle conseguenze di questo cambiamento di paradigma. Il posto fisso sembra solo un’espressione utile per iniziare una barzelletta o un racconto che appartiene a un altro tempo. La nuova parola d’ordine è cambiamento, l’unica cosa certa.
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In occasione dell’uscita di Caffè Voltaire, Laura Campiglio si è raccontata in quanto scrittrice e ha approfondito alcuni dei temi trattati nel romanzo, così aderenti all’attualità e alla grande crisi che stiamo vivendo in questi giorni.
Com’è nato Caffè Voltaire?
È un’idea che ho in mente già da anni, da più di dieci anni e che, guardandomi intorno, mi sono resa conto che era ancora molto attuale. Dopo il liceo, ho iniziato a lavorare per un quotidiano locale, «Prealpina», perché volevo fare la giornalista. L’esperienza risale al 2000-2001, per cui la rassegna stampa arrivava in cartaceo. Tutte le mattine ci arrivano i grandi giornali e chiunque aprisse al postino, dall’addetto alle pulizie fino al direttore, ritirava i giornali e li appoggiava su un tavolo. Noi, dalla redazione, ci trovavamo a smistarli e avevamo l’abitudine, un gesto inconscio, di posizionare fisicamente sul tavolo i giornali di destra, alla nostra destra, seguendo quasi la gradazione dello schieramento, e quelli di sinistra alla nostra sinistra. Leggendo i titoli dei due estremi, di destra e di sinistra, sembrava che non si stesse parlando dello stesso paese, dello stesso giorno, degli stessi eventi.
Da qui la domanda: e i precari? I giornalisti che lavorano come collaboratori e che quindi sono costretti ad avere più di una testata per la quale riportare le notizie? Mi è successo di parlare con un amico giornalista che mi raccontava di come fosse arrivato a un certo punto a scrivere, in contemporanea, sia per la CGIL sia per Confindustria: un autentico sdoppiamento ideologico con il quale non è semplice convivere.
Cosa comporta questa esigenza di essere «liquidi»?
Le prime difficoltà sono legate alle scelte da attuare per quel che concerne il proprio tempo, la formazione. È dura capire qual è la tua strada, cosa ti piace fare davvero, preso nel vortice di mille collaborazioni. Ci si trova a un continuo bivio, anzi a una continua rotonda.
Quello che si perde a essere fluidi, liquidi, si sviluppa ad almeno tre livelli. Dal punto di vista economico, è la generazione che non compra case, non accede a mutui, non si sa se avrà una pensione. Manca una sicurezza che, sebbene possa sembrare fastidiosa a lungo andare, è anche una tutela importante. Dal punto di vista sociologico, invece, l’orizzonte della famiglia è sempre più lontano e sfumato. Certo, abbiamo raggiunto la possibilità di fare quello che si vuole, ma spesso, la decisione di mettere su famiglia non è dovuta a una libera scelta, ma al fatto che non lo si possa permettere. Il risvolto psicologico è la difficoltà a vivere in mezzo all’assenza delle certezze, dove nulla è rassicurante.
Anna Violetta ha un modo tutto suo per affrontare la paura, anzi per conviverci. La paura, si può anche superare?
Sono contenta che mi stia facendo questa domanda, ha colto il mio punto preferito. La paura è il vero problema di Anna, infatti, fino all’ultimo, subisce. Dice sempre di sì perché non è coraggiosa. Scopriamo che non è coraggiosa in tanti frangenti. Però sa di cosa ha paura e cerca di rispondere in modo controfobico, per arginarla. Trova traumatizzante l’idea che, se si ha paura dell’acqua, si debba essere buttati in mare, ma crede sia utile avvicinarsi alla propria paura, osservarla, familiarizzare con lei, per poi arrivare magari anche a superarla. Non so se si possa superare, so però che a furia di osservarla, si può arrivare a conviverci.
L’unico elemento autobiografico è la collezione di insetti di Anna. Anche se la mia paura non è altrettanto forte quanto la sua, ho una collezione delle mie «paure».
Il romanzo è stato scritto in tempi non sospetti e immagino che il riferimento fosse a tutt’altra situazione, ma non posso fare a meno di notare l’aderenza all’attualità. Dice: «Perché una società civile, quindi senza pena di morte, concepisce come massima punizione per chi sbaglia un’immensa, indistinta valanga di ozio forzato? Forse perché l’ozio forzato è una tortura: ti ritrovi tra le mani queste giornate improvvisamente vuote e d’un tratto cercare qualcosa da fare diventa un’urgenza più pressante di qualsiasi lavoro»…
Certo, quando scrivevo non potevo nemmeno immaginare quello che stiamo vivendo al momento con la pandemia provocata dal COVID19. Sta accadendo l’inimmaginabile.
Io pensavo alle situazioni in cui ci si debba fermare perché si va in pensione, per esempio. L’ozio diventa uno sconfinato tempo libero, sinonimo di prigionia.
Con queste premesse, per riallacciarmi alla sua riflessione, vediamo oggi una difficoltà a occupare quest’ozio, questa noia con il nulla, perché siamo stati allevati con l’idea che l’ozio sia il padre di tutti i vizi. Siamo i figli di una cultura del fare che, da un lato è positiva, ma dall’altro ha anche ricadute negative, diventando così difficile da gestire. Anche in tempi di serenità, non solo quelli che viviamo ora e in cui notiamo madri che impazziscono alla ricerca di cose da fare per i loro figli, quando, forse, un po’ di noia creativa non sarebbe poi tanto male.
Perché Voltaire, perché Caffè Voltaire?
Voltaire arriva dalla canzoncina che cito nel romanzo. Nell’Ottocento, durante la Restaurazione francese, circolava una canzoncina, ripresa poi anche da Gavroche. Era una canzone popolare che dava la colpa di tutto agli Illuministi. Ho vissuto a Parigi per un periodo e lì mi sono imbattuta in questo motivetto e mi è tornato in mente quando pensavo al romanzo. Mi piaceva l’idea di riprendere il discorso sulle «colpe» degli illuministi.
Il titolo, poi, è un omaggio al baretto, una cosa che in questi giorni di autoisolamento mi manca molto e che credo faccia parte della cultura italiana. È il luogo delle storie, è nel nostro DNA. Per me è difficile sostituire il bar con la piazza virtuale.
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È una scrittrice con rituali e abitudini imprescindibili? Dove scrive?
Ho pessime abitudini per scrivere, che dovrei cambiare. Scrivo di notte. E non trovo questo momento di scrittura per niente romantico, anzi trovo che sia difficoltoso per la convivenza quotidiana con la famiglia. Nella stesura di Caffè Voltaire ho avuto il massimo supporto da parte delle mie figlie che si sono dimostrare autonome in tutti i sensi, in modo che io potessi dedicarmi alla scrittura. Una volta era capitato che ci si incontrasse alle 6 del mattino con mia figlia più grande, io stavo scrivendo il tredicesimo capitolo, lei si stava preparando per andare a scuola.
Come spazio: scrivo in cucina, sia perché non ho uno studio, sia perché è il luogo più comodo. Ho a portata di mano il caffè e la credenza per sgranocchiare qualcosa. Credo che, se anche avessi uno studio, scriverei comunque in cucina.
Per la stesura, non seguo metodi, non scrivo un pezzo al giorno, tutti i giorni, ma posso arrivare a scrivere un intero romanzo in tre mesi.
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Per la prima foto, la fonte è Pixabay.
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