Rinascere dall’alcolismo. “La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli
Una sensibilità eccessiva può talvolta essere una condanna, più che un dono. Sentire più degli altri, porsi domande continue su argomenti che la maggior parte delle persone accetta senza interrogarsi; guardare, anziché osservare, cercare di capire e poi di nuovo interrogarsi ben sapendo che tanti quesiti resteranno comunque irrisolti. Questa sensibilità può rischiare di distruggere, di condurre a un presente vuoto e privo di certezze, nel quale l’unica soluzione consiste nel trovare rifugio e conforto in una bottiglia di vino bianco. Capire o fingere di non «cogliere ovunque l’assenza di qualcosa, qualcuno» soffocando così se stessi e la propria vera natura?
È questo che avviene a Daniele Mencarelli, poeta e scrittore italiano, nel romanzo La casa degli sguardi, edito da Mondadori. Un libro delicato, in cui l’autore protagonista spalanca le porte del proprio passato al lettore mostrandogli gli scheletri che per lungo tempo lo hanno tenuto inchiodato a una vita che giorno dopo giorno rischiava di logorarlo. Daniele svela con cruda sincerità le proprie fragilità di essere umano, narrandoci una parte della propria vita vissuta intorno ai venticinque anni. Come può riuscire un uomo a liberarsi dalle catene che lo imprigionano? Quale soluzione deve adottare? Questi sono alcuni dei quesiti trasmessi in questo libro. Forse, per chi scrive, la chiave di salvezza può essere costituita dalla scrittura, scrivere per diventare testimone di ciò che si vede e tradurlo in parole.
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Il protagonista del romanzo è un uomo che è diventato dipendente dall’alcol. Consapevole del baratro nel quale è scivolato, decide di chiedere aiuto a un amico, Davide, direttore di una rivista letteraria, il quale lo aiuta a trovare lavoro presso una cooperativa di pulizie che fa servizio all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Daniele si trova però presto a contatto con una realtà che lo destabilizza tanto quanto il suo problema. Nei corridoi di quell’ospedale assiste ogni giorno alla malattia, talvolta alla morte, di piccoli innocenti. Confusamente si domanda allora quale Dio possa permettere che tutto ciò avvenga, poiché egli non scorge alcuna traccia divina in quel che vede. Compiendo il proprio lavoro Daniele osserva. Incontra tanti sguardi – da qui il titolo del romanzo –, lo sguardo di Toc Toc, un bambino ricoverato nel reparto di nefrologia, che tutte le volte che lo vede passare da sotto la sua finestra gli fa cenni con la mano cercando con lui un contatto di amicizia; osserva lo sguardo spento di una bambina in una sala dell’obitorio; e tutti gli sguardi sofferenti dei genitori di quei bambini che vedono i loro figli strappati presto alla vita. Daniele guarda tutto questo con cura: losguardo del collega Stefano, eroinomane, e in lui vede riflesso se stesso, e quello che sta facendo a se stesso. E osserva i colleghi che piano piano gli insegnano col loro simpatico dialetto romanesco a prendere la vita con maggiore leggerezza e a sorridere persino dinanzi alle avversità.
Il libro si apre con un’affermazione che nelle ultime pagine sarà poi ribaltata: «Non ricordo nulla». Non ricordare è infatti l’obiettivo col quale ogni sera si addormenta stordito dagli effetti dell’alcol. Il vino lo aiuta a svuotare la memoria e a dimenticare la giornata. Sul finale però Daniele dirà «Voglio ricordare tutto». Nel mezzo tra i due pensieri avviene dunque un percorso, una discesa agli inferi seguita dalla rinascita di un nuovo uomo. Daniele è un poeta, ma nel corso degli anni ha abbandonato la scrittura, per dedicarsi quasi esclusivamente all’attaccamento alla bottiglia di vino. Tutte le persone che lo circondano lo incitano a riprendere a scrivere, a buttare le emozioni e il dolore che prova su un foglio di carta bianca. La poesia non può però secondo lui salvarlo, perché essa non cura il dolore, «lo testimonia» soltanto. Le parole sono «cristallo e radice, viaggio e lama, sono tutto, tranne medicina». La poesia non è curativa, ma «apre, dissutura, scoperchia», eppure, sarà proprio la poesia a fornirgli la chiave per la salvezza. Daniele è consapevole che con la sua dipendenza dall’alcol sta uccidendo coloro che vorrebbe proteggere, i suoi familiari. Sua madre, che vive nell’attesa che accada qualcosa, un miracolo, che porti questo figlio infelice a cambiare. «Ma che te manca? Ma perché non te vuoi bene?» gli domanda questa donna disperata che ha sacrificato la propria vita per i figli. «Aiuto? Io so anni che vorrei aiutarti, ma solo tu te puoi aiuta». Cosciente del dolore che causa ai propri familiari, il protagonista vuole allora provare a spezzare la catena che si è avvolto intorno alla vita e risalire dalla trincea che ha scavato e che ha riempito di vino bianco. L’alcol è stato fino a quel momento un rifugio, «un’onda di morbidezza – capace di – far sparire gli spigoli che mi feriscono». Vi è giunto come ripiego dalle sostanze stupefacenti, ma è finito col diventare una nuova schiavitù. Smettere di bere vuol dire «tornare nel ventre materno e rinascere», riuscire a liberarsi e a spezzare le catene che lo ammanettano. Quando si è affetti da una dipendenza così forte, come è quella delle droghe e dell’alcol, a soffrire non è solo chi vive il problema in prima persona, ma anche coloro che gli sono accanto, perché assistono al lento autodistruggersi della persona a cui si vuole bene, con un’impotenza che angoscia e uccide, immobilizza e risucchia e che rischia di trascinare nello stesso vortice del malato/dipendente. Daniele è consapevole di tutto ciò, per questo il 3 marzo 1999 firma il contratto di lavoro con la cooperativa di pulizie.
In quell’ospedale trova inizialmente un luogo di tortura che sconvolge la sua grande sensibilità. Il contatto con tutte quelle anime innocenti affette da malattie, per lui che sente più degli altri, è devastante. Non comprende come facciano i colleghi a non lasciarsi coinvolgere da quella sofferenza, a camminare tra i corridoi di quella struttura senza provare sconvolgimenti emotivi, come invece accade a lui. A cosa serve il dolore di questi bambini? – si domanda. «Chi dispone gli eventi? Perché davanti ai miei occhi devo vedere, galleggianti dentro barattoli di vetro, pezzi di bambino, alcuni irriconoscibili, altri tremendamente noti come possono esserlo un braccio, una mano, un piede». Forse non serve capire davvero? Forse bisogna imparare a fronteggiare l’orrore per riuscire a superarlo? Forse la vita vale comunque la pena di essere vissuta? Nonostante le malattie e i dolori, il bene e il male, la bellezza e lo sfacelo, forse Dio conosce anche modi diversi per mostrare la propria grandezza? Come assistere al sorgere di un nuovo giorno, seduto sulle rive del Tevere, e scorgere in quell’attimo un istante che blocca il respiro e che fa avere la piena percezione e consapevolezza di essere “vivo”.
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Con questo romanzo Daniele Mencarelli dimostra di essere un grande poeta anche cimentandosi nella forma narrativa. La sua scrittura è delicata e incisiva. Il lettore resta incollato dalla prima all’ultima pagina del libro, soffrendo e lottando insieme al protagonista e ai suoi familiari e a tutti quei bambini le dure battaglie riservate dalla vita, accogliendo a braccia aperte e nella totalità più assoluta e sincera tutto quello che ci riserva, persino le fragilità che molto spesso rischiano di far sembrare deboli, ma che in realtà sono quel che contraddistingue una persona da un’altra, un’anima più sensibile da una meno sensibile. Solo godendo di ogni singolo istante potremo considerare la vita come il bene più prezioso che possediamo, senza lasciarsi mai soccombere.
Per la prima foto, copyright: Robert Mathews.
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