Raccontare la guerra oggi. Intervista a Janine di Giovanni, reporter di Newsweek
Il giorno che vennero a prenderci (La nave di Teseo, 2017 – traduzione di Chiara Spaziani) è uno spietato reportage della guerra in Siria scritto da Janine di Giovanni, celebre reporter di «Newsweek» che ha seguito tutti i conflitti degli ultimi due decenni, a partire da quello nei Balcani. Per duecentoquaranta pagine il lettore si trova immerso nella drammaticia realtà di un paese che, nell'arco di pochissimi anni, è precipitato da uno stato di relativo benessere e tranquillità, sia pure sotto il governo dittatoriale di Bashar al-Assad, al caos e alla distruzione di una guerra civile di cui, al momento, non si riesce a intravedere una fine.
Janine di Giovanni non ci risparmia nulla, raccogliendo le testimonianze di siriani filogovernativi e di ribelli, di combattenti e di donne stuprate, di musulmani e di cristiani che, oltre a raccontare episodi spesso raccapriccianti, sono quasi tutti d'accordo nell'esprimere una profonda nostalgia per il tempo in cui la Siria era un paese dove abitanti di etnie e religioni differenti convivevano pacificamente. Come si è arrivati allora alla guerra attuale?
Da grande giornalista, la di Giovanni vuole soprattutto riportare fatti e testimonianze, lasciando che sia il lettore a giudicare e a porsi domande: è però inevitabile leggere tra le righe un atto d'accusa nei confronti della comunità internazionale, che fino a oggi non è riuscita nemmeno a imporre una tregua in una guerra civile che ha già causato centinaia di migliaia di vittime, oltre ad aver danneggiato in modo irreversibile gran parte del ricchissimo patrimoniostorico-culturale della Siria.
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Abbiamo potuto intervistare Janine di Giovanni a Milano, in occasione della sua partecipazione a uno dei numerosi incontri della Milanesiana 2017.
Cominciamo dalla fine: al termine del libro lei si chiede come sarebbe stata la sua vita se non avesse iniziato molto presto a fare l'inviata speciale. Si è mai data una risposta?
Stavo proprio pensando a questo poco fa, mentre scendevo a colazione. Per quanto mi riguarda sono una persona ottimista, credo nell'umanità e credo veramente che le persone vogliano fare delle cose giuste, perciò non vedo il buio ovunque. Al tempo stesso, però, conosco la velocità con cui le cose possono peggiorare, so come iniziano le guerre e oggi devo dire che, anche se potrà sembrare poco ottimista, io non mi sento molto sicura nel mondo in cui viviamo, perché vedo come tutto si può deteriorare.
Dall'11 settembre 2001 noi viviamo con una maggiore ansia, abbiamo assistito alla nascita del terrorismo, all'espansione della radicalizzazione. Sì, dopo la nascita di mio figlio mi sono sentita impaurita da quello che potrebbe accadre. Se però non avessi mai visto tutti i conflitti in Bosnia, Afghanistan, Palestina, forse non avrei mai conosciuto la profondità dell'orrore che è capace di compiere l'uomo.
Cosa significa per lei il suo lavoro?
Ora che mi sento cresciuta, direi anche invecchiata, il mio lavoro di documentare i fatti in modo sistematico mi appare più chiaro: ho capito in cosa sono brava e in cosa meno. Ho scelto di documentare, di mettere per iscritto quello che succede, perché ciò che viene scritto non può essere cancellato. Scrivere una storia di abusi, raccontare di qualcuno che è stato terrorizzato e picchiato, può servire per ottenere giustizia, per trovare e punire dei responsabili, anche se so che in tempo di guerra il percorso della giustizia può diventare lunghissimo. Riguardo alla Bosnia, per esempio, sono ancora tormentata dal pensiero che tante donne che allora erano state violentate non hanno mai ottenuto giustizia, e ogni giorno possono incrociare per strada i loro stupratori.
Ma se io riesco a mettere in un libro quello che succede, nessuno potrà più dire che non sapeva nulla. Sono sempre stata affascinata dalla possibilità di registrare gli avvenimenti, di essere una cronista che può contribuire alla storia.
Quanto la maternità ha modificato la sua vita? E cosa pensa suo figlio di questo suo lavoro?
Mi arrabbio quando leggo articoli sulle donne che fanno sembrare così facile lavorare ed essere madri, e appaiono sempre perfette. Io sono come milioni di madri in tutto il mondo, che fanno fatica a lavorare e a crescere i figli. Che tu sia una cameriera, una giornalista o una dottoressa, ti devi sempre dividere a metà. Col mio lavoro, poi, è forse ancora più difficile. Non voglio che mio figlio erediti il buio, non voglio certo tramandargli tutto l'orrore che ho visto nella mia vita: tra l'altro anche suo padre è un reporter di guerra, ci siamo conosciuti a Sarajevo.
Ho anche scritto un libro su come tramandiamo l'orrore per generazioni, ma non volevo che lui restasse influenzato dal mio vissuto e l'ho chiamato Luca, "colui che porta la luce", perché quando è nato stavo vivendo un periodo buio, sono anche diventata madre abbastanza tardi. In ogni caso, spero che Luca sia cresciuto con una prospettiva equilibrata del mondo: gli ho fatto capire che il mondo non è tutto come il sesto arrondissement dove noi viviamo a Parigi, che ci sono bambini della sua età che combattono nelle guerre, che maneggiano le armi e che non hanno più i genitori.
Quando mio figlio aveva sei mesi, sono stata in India a fare un reportage sui bambini che si ammalavano di AIDS e mi sono innamorata di un bimbo indiano, che pensavo coetaneo di Luca, mentre in realtà aveva già quattro anni, ma era rimasto così piccolo a causa della malattia. Volevo adottarlo e portarlo a casa con me, ma non è stato possibile. Ho pagato le sue cure mediche, ma sei mesi dopo il bimbo è morto. Ho una sua foto accanto a una di Luca a casa, proprio per ricordarmi questi due aspetti del modo infantile. Non dimentico mai quanto sono fortunata, perché io, anche se vado a lavorare in posti terribili, posso sempre tornare a casa, ho una vita bella e piena. Sono una madre single ma non mi mancano una casa, il cibo, i vestiti.
Forse il peggior sbaglio che ho commesso con mio figlio è stato quello di avere inculcato in lui un forte senso di colpa, perché gli ricordo sempre quanto è fortunato a non essere nato in mezzo a una guerra, ma sono anche contenta che si mostri compassionevole.
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Continua a essere ottimista nei confronti del mondo anche dopo aver vissuto esperienze così estreme?
La guerra ci mostra cose atroci, ma noi ne vediamo anche un aspetto incredibile: come le persone riescono a resistere. Io credo che l'umanità possieda una straordinaria capacità di resistere a tutti i tipi di eventi. Anni fa, quando studiavo psicologia, c'era uno psicologo americano che usava la metafora delle cozze per spiegare questo: le cozze ogni giorno sopportano le onde del mare che si abbattono sulle scogliere dove vivono, ma resistono attaccate agli scogli e crescono. Allo stesso modo resistono gli umani, perciò il coraggio e la bontà delle persone che ho conosciuto mi ha spinto avanti nei miei venticinque anni di lavoro.
Credo fondamentalmente nella giustizia, nel fatto che un giorno, magari anche lontano, le persone responsabili di certi crimini verranno punite. Non mi sento un guerriero, ma cerco la verità e mi sento fortunata di poterlo fare. Prima della nascita di Luca mi trovavo in Cecenia e a un certo punto ho creduto di morire, ma in quel momento sentivo di aver dato un senso alla mia vita. Non sono ricca, lotto come tutti con tanti problemi quotidiani, ma la passione per il mio lavoro è il motore che mi spinge avanti.
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Dopo gli avvenimenti degli ultimi anni, che ha documentato in questo libro, cosa pensa riguardo al futuro della Siria? Pensa che si troverà una soluzione soddisfacente in tempi accettabili o no?
Le trattative di pace finora non hanno avuto successo, anche perché, finché le varie potenze mondiali continueranno a finanziare, più o meno di nascosto, le fazioni in lotta, non sarà possibile trovare una soluzione. Forse faranno pace quando tutti finiranno i soldi.
Bisognerà vedere però quale sarà la mappa della Siria quando smetteranno di combattere, come verrà divisa ma, soprattutto, quando cesserà l'odio che si è creato. Abbiamo visto la stessa cosa in Bosnia: l'odio rimane per generazioni, è molto difficile toglierlo e influenza pesantemente il carattere delle persone. Non solo è quindi preoccupante pensare a come sarà il territorio quando finirà la guerra, ma anche per quanto tempo resterà l'odio fra le persone.
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