Raccontare la complessità degli adolescenti. Intervista a Paola Zannoner
Paola Zannoner riesce nel suo nuovo libro, L’ultimo faro (De Agostini), a porre al centro la complessità degli adolescenti, riconoscere la loro identità al di là delle etichette che spesso gli adulti, a qualsiasi livello, usano per ridurli a un comportamento o a un problema
E lo fa lasciandoli liberi di raccontarsi e di raccontare la loro storia in prima persona, confidando nel potere e nella forza dell’auto-narrazione come strategia per porre al centro di nuovo se stessi.
Quattordici ragazzi trascorrono tutti insieme la loro estate su un faro, quattordici vite che si raccontano e ci mostrano il mondo complesso e affascinante che si nasconde dietro etichette come “ragazzo problematico”.
E proprio da questo punto abbiamo iniziato la nostra chiacchierata con Paola Zannoner.
L’ultimo faro racconta di quattordici ragazzi, ognuno dei quali è portatore di una propria storia personale, ma tutti accomunati dal definirsi «”ragazzi problematici”, casinisti, piccole premesse criminali». Quanto incide e influisce nella formazione di un adolescente il giudizio che gli adulti esprimono su di lui?
Non tutti e 14 i ragazzi sono così. Certo, ognuno ha i suoi problemi, compreso quello di essere per esempio immigrati e faticosamente inseriti nel contesto sociale. I giudizi sono ovviamente importanti, possono “bollare” una personalità che si sta formando, possono far soffrire molto, addirittura imporre certi comportamenti. L’educazione ha la grande responsabilità di fornire regole per la convivenza civile, pacifica, che significa rispettarsi reciprocamente per noi tutti esseri umani che ci sentiamo narcisisticamente unici e che tendiamo alla sopraffazione. L’equilibrio è difficile, bisogna saper insegnare, trasmettere valori e conoscenze, camminare vicino ai nostri figli senza stare davanti a farci belli o dietro, a spingerli.
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Ma cosa vuol dire essere un “adolescente problematico”? Quale mondo spesso noi adulti tendiamo a nascondere dietro una tale etichetta?
Non sono una psicologa, e sono stata di sicuro un’adolescente problematica, nel senso che avevo fortissime crisi di identità e di relazione con le mie coetanee, nella scuola media che ho frequentato dove ero la classica secchiona ed ero trattata con disprezzo, al liceo dove ho avuto professori terribili che si rivolgevano a noi studenti di 14 anni con il lei. Ogni ragazza e ogni ragazzo ha sbalzi umorali, è strambo a modo suo, cerca una sua strada, una sua personalità: sono andata perciò a raccontare quella complessità, che poi alla fine è la grande complessità sociale. Gli adulti non possono nascondere ciò che è sotto gli occhi di tutti: la rabbia, la violenza, la sopraffazione, lo sfruttamento, la distruzione della natura. Ciò che si nasconde o si dimentica è che c’è una sola Terra e una sola umanità, che facciamo parte di un unico contesto e che siamo un unico corpo sociale, un unico essere umano formato di tantissime particelle. È per questo che nel romanzo c’è un momento chiave per i ragazzi: l’osservazione delle stelle, la visione dell’universo di cui noi non siamo il centro ma un’infinitesima parte.
Il libro è anche una riflessione sul raccontare storie, perché i ragazzi che si ritrovano nel faro finiscono con il raccontarsi le reciproche vicende, o meglio col parlare di sé in prima persona. Perché questa scelta narrativa? E quanto può essere importante per i ragazzi trovare il coraggio di aprirsi nonostante le proprie debolezze?
La letteratura è principalmente un campo semantico cui tutte le storie fanno riferimento e si inseriscono. Questo romanzo, come altri miei, rappresenta anche una riflessione sul racconto verbale e scritto, sulla forma letteraria, che offre dignità a ogni piccola storia e che testimonia la nostra condizione umana in questo specifico momento storico. Mi interessava anche la costruzione dialogica tra la terza e la prima persona, tra la narrazione esterna e l’io narrante, che la letteratura può offrire, in un continuo rispecchiamento tra il sé e l’altro. La letteratura per ragazzi non è soltanto puro intrattenimento. Un tempo era pedagogica e dettava una “morale”, oggi si tende all’evasione. Credo che ogni storia contenga un “insegnamento”, o comunque più spunti di riflessione, perciò il libro offre anche l’esempio di “sapersi raccontare”, di farlo attraverso la forma narrativa che comporta l’uso sofisticato del linguaggio scritto, anziché uno sfogo verbale momentaneo oppure il silenzio delle parole e dei pensieri.
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«Io la mia dose di dolore l’ho avuta. E lo so che la vita fa schifo, sia da piccoli che da grandi». A parlare è Lin, uno dei quattordici protagonisti. Come può un adolescente convivere con una tale consapevolezza che sfocia quasi nella rassegnazione?
Un adolescente qualsiasi probabilmente non può, ma siamo dentro un romanzo, siamo nel campo letterario dove un adolescente è un personaggio simbolico, è paradigmatico della ricerca umana di consapevolezza, di espansione di conoscenza. Un adolescente che ha avuto un trauma poi è molto diverso da chi vive spensieratamente, protetto dal guscio familiare. Francamente, ricordo a 14 anni qualche amico che diceva proprio che la vita “fa schifo”, una provocazione, un atteggiamento, un grido di aiuto, chissà. Per Lin però c’è anche la sua terribile esperienza, quel che deve riacquistare è la fiducia negli altri, nella vita.
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Una delle ultime battute del libro è affidata a Natasha: «Forse abbiamo sbagliato, ma non abbiamo fatto nulla di male». Al di là dello specifico contesto in cui la frase viene pronunciata, non può essere considerata come la sintesi perfetta di tutte le storie raccontate?
Sì, certo. “Non ho fatto nulla di male” è una frase molto comune, pronunciata da tutti i bambini e i ragazzi, come anche “io non c’entro” oppure “non è colpa mia”. E in effetti nessuno di loro fa nulla di male, semplicemente vivono e reagiscono a un ambiente, in un contesto. Sono giovanissimi, devono capire, fare esperienza, aprirsi agli altri. Così, quando sono dentro la natura, lontani, sotto i puntini del cosmo, si riaffaccia in loro la forza dell’essere umano in natura, la libertà che possediamo di scegliere e decidere chi siamo e chi saremo, la complessità del mondo cui apparteniamo.
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In una recente intervista, lo scrittore francese Michaël Uras ha affermato che per i ragazzi sarebbero da preferire i classici anziché libri young adult, o comunque pensati appositamente per loro. A cosa è dovuta, secondo lei, questa perplessità verso la letteratura per ragazzi?
Che devo dire? Dalla poca conoscenza, dal pregiudizio e anche da una “certa idea” di letteratura e soprattutto dei lettori, come se chi legge fosse qualcuno da educare alle belle lettere. D’altronde alla sua epoca, Jane Austen era considerata una scrittrice “per ragazze”, ininfluente rispetto agli autori di grande letteratura come sir Walter Scott, per esempio. I classici quali? Mi verrebbe da chiedere. Tacito? Livio? Come leggevamo noi al liceo classico? Oppure Dumas che scriveva pagato a pagine? Un autore per adulti come Tolstoj o un classico per ragazzi come Dickens? Un classico del ‘900 come Calvino oppure ci fermiamo agli inizi dello scorso secolo? Credo che queste affermazioni siano sempre approssimative, poco propositive. Di certo non fanno crescere lettori, e non ne conquistano nemmeno uno.
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Per la prima foto, copyright: Oliver Ivanov.
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