Raccontare il cancro senza cedere al melodramma. “In gratitudine” di Jenni Diski
Puntata n. 8 della rubrica La bellezza nascosta
«Si impara che c’è un processo e che non è davvero importante ciò che si scrive, ma come lo si scrive, quello sì che è cruciale, e ciò che scrivo io e scrivi tu non sarà mai come quello che scrive lui e scrive lei, a meno che, come diceva Truman Capote, ciò che stai facendo non sia scrivere, ma battere a macchina. Dunque ho il cancro, sto scrivendo.»
Lo scrittore è quel genere di persona che raccoglie gli accadimenti della sua esistenza e li trasforma in tessuto narrativo; non importa cosa accada, e quanto in là ci si debba spingere, sulle pagine ci riverserà sempre tutto quello che lo ha inquinato, sollevato, ingentilito, imbruttito, fatto disperare. C’è un confine tra ciò che è possibile e ciò che non è possibile narrare? C’è una linea che bisognerebbe stare attenti a non oltrepassare? Esiste davvero qualcosa che possa definirsi inenarrabile?
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Le parole a volte possono essere ferita, altre volte cura; le pagine scritte sono ponti, chi scrive si pone delle domande senza per forza andare alla ricerca delle risposte, e quelle stesse domande finiranno nelle mani del lettore, e avranno il compito di attuare lo stesso processo di escavazione avvenuto nella mente del narratore. Ci sono però confini che una volta oltrepassati conducono in terre desolate, dove l’unico strumento che possa donare salvezza e che possa lenire i mali del mondo è proprio la parola scritta. Parlare, quindi, di una malattia, parlare, dunque, di un cancro, raccontare la certezza che i giorni dovranno finire prima del previsto, se mai poi ci fosse davvero stata una sorta di previsione finale.
Jenni Diski è nata a Londra, nel 1947, scrittrice di racconti, saggi e momoir; con In gratitudine ci regala la sua biografia terminale; l’opera è stata pubblicata in Italia da NN edizioni nel 2017, la traduzione è stata a cura di Fabio Cremonesi.
Il libro parte nel momento in cui un oncologo dona a Jenni la notizia nefasta che il suo cancro è incurabile; inizia così la narrazione della scrittrice londinese che, con una serie di andirivieni, ci porta nella sua adolescenza tormentata, negli istituti psichiatrici in cui è stata rinchiusa, nella sua vocazione di diventare una narratrice e nel suo rapporto sempre al limite, con la donna che ha deciso di ospitarla in casa, la scrittrice premio Nobel Doris Lessing. Pagine e pagine di memorie, passate e vicine, dove Jenni si mette a nudo, spogliandosi di ogni timore di raccontare la verità, cruda, assoluta.
«Non riuscivo neppure a descrivere i più straordinari panorami del pianeta senza riferirmi a me stessa e alla mia vita […] non posso usare gli occhi per vedere qualcosa, senza che gli occhi stessi sappiano che ciò che stanno vedendo è condizionato da ciò che ho imparato e sono stata. Lo stesso vale anche per la mia mente quando pensa. Così sia. Sono una scrittrice. Ho il cancro? Ne scriverò. Come potrei farne a meno?»
Lo stile di Jenni Diski è essenziale, leggero, ritmico, a tratti prepotente; la sua narrazione prosegue fluida, ci porta nel passato, conducendoci nei suoi luoghi oscuri, come se noi fossimo degli amici fidati; ci direziona, poi, nei suoi giorni del cancro, le Tac, la radioterapia, la stanchezza, il sonno continuo, e la certezza che la fine, per lei, sarebbe stata sempre troppo vicina.
«Da bambina avevo regolarmente degli episodi – che i miei genitori chiamavano malumori e i dottori oggi diagnosticherebbero come depressione – durante i quali mi ritrovavo isolata dal mondo esterno. Diventavo muta e immobile.»
La sincerità cola via da ogni pagina ma, a un certo momento, ci accorgiamo che manca il lamento, mancano quelle frasi che gridano all’ingiustizia, che probabilmente chiunque si sarebbe spettato di leggere.
Diski invece ci avvolge con la sua ironia, e man mano che proseguiamo all’interno di questa sua esistenza scritta ci accorgiamo che tutta l’opera è un inno di amore verso la vita, verso la scrittura e verso le impossibilità che dovrebbero essere affrontate con leggerezza.
E a tratti questa autorevolezza nel maneggiare il dolore può sembrarci disarmante.
«– Oh, guarda quella dolce verginella – esclamò uno di loro, porgendo la mano per aiutarmi a scendere dal sedile posteriore della sua Land Rover. Col cazzo che sono vergine – e balzai giù dalla macchina senza farmi aiutare, cosa che con mia grande sorpresa provocò da quel giorno una sorta di adorazione senza speranza nei miei confronti.»
Tutto il libro è come se fosse un trattato sul potere delle parole e sul ruolo salvifico che può assumere la scrittura. Jenni Diski non cede mai al melodramma, provando a raccontare anche le fasi più dure della malattia, attraverso una lucidità esemplare.
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Sarebbe giusto se ogni essere umano potesse essere a conoscenza del giorno della sua dipartita?
E se la risposta fosse si, in che maniera ognuno di noi, cercherebbe di prepararsi mentre si avvicina l’ultima ora di mondo?
Uno scrittore non avrebbe esitazioni, con un foglio bianco e le parole che gli opprimono la gola proverebbe a riempire gli ultimi giorni della sua esistenza, cercando di raccontare se stesso, e tutte le sensazioni che lo stanno accompagnando verso la morte.
«Il futuro scintillò davanti ai miei occhi in tutta la sua fatidica banalità. Un disagio, prima, così intenso da escludere tutti gli altri stati d’animo. Ma un disagio ripiegato su sé stesso nello sconforto, quello che ti coglie quando qualcosa fuori dal tuo controllo ti pone su un binario prestabilito.»
La vita è composta, in larga scala, da cose non programmate, spesso non volute;le nostre strade sono continuamente invase da disagi, disastri, dolori, e sofferenze. Ma si può scegliere di restare composti, anche quando un cancro ci sta divorando lentamente, e decide di farcelo sapere quando contro di lui non possiamo far assolutamente nulla, se non guardarlo e sentirlo, mentre ci distrugge; decidere di provare l’immobilità come arma di difesa perché, anche se delle volte vincere non è possibile, possiamo cercare di perdere in maniera meravigliosa.
Per la prima foto, copyright: Pablo Varela.
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