Quando le forze dell’ordine uccidono. Intervista a Flavia Perina
Le lupe (edito da Baldini&Castoldi) è l’interessante esordio narrativo di Flavia Perina, giornalista ed ex parlamentare di Futuro e Libertà per l’Italia, dopo aver diretto per diversi anni il quotidiano «Il secolo d’Italia», da sempre figura anomala nel panorama culturale di destra. Anche questo suo primo romanzo esprime una visione molto particolare, decisamente eterodossa rispetto alle scelte tradizionali della parte politica in cui ha militato.
Flaminia, la protagonista, conduce un’esistenza da ricca signora borghese a Roma Nord, nella “parte buona” della città, dopo aver sepolto in fondo alla memoria i ricordi di una burrascosa giovinezza da estremista “nera”. Il suo mondo rassicurante crolla però quando Carlo, il figlio diciottenne, viene ucciso brutalmente da una pattuglia di poliziotti, che lo scambiano per un ultrà da stadio. Da quel momento, nella testa di Flaminia c’è posto solo per un pensiero: quello di capire chi sia il responsabile diretto della morte del figlio, e poi di vendicarsi. Per farlo, non esiterà a tornare al passato che aveva rimosso, e alle amicizie giovanili che si era illusa di aver dimenticato.
Le lupe è un romanzo forte e diretto, che affronta in primo luogo un tema di scottante attualità come quello delle numerose morti attribuite alle forze dell’ordine, ma che parla anche di un sentimento primordiale come la vendetta, oltre che della forza dell’amicizia. Abbiamo fatto qualche domanda in proposito a Flavia Perina.
Il suo libro racconta una vicenda molto simile a quella di Federico Aldovrandi. Si è ispirata soprattutto a quella, oppure il personaggio di Carlo Livi si propone come emblema di tante storie di violenza da parte delle forze dell'ordine degli ultimi anni?
Ho messo insieme diverse, tragiche storie di violenza, non solo di questi anni ma anche del passato, cercando di costruire un fatto emblematico, che unisse molte morti, non solo di destra ma anche di sinistra – penso a Giorgiana Masi, ad Alberto Giaquinto – rimaste a volte misteriose perché probabilmente dovute ad abuso di potere da parte dei poliziotti, e casi recenti come Cucchi, Aldovrandi, Sandri: sono tutti casi in cui la forza pubblica abusa dei propri limiti ma non si trova un colpevole. Cercavo la somma di un’ingiustizia che, se commessa dallo stato, diventa irreparabile.
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La destra, anche ai tempi del peggiore estremismo, ha sempre avuto un rapporto diverso con polizia e carabinieri rispetto a quello della sinistra. È questo a rendere ancora più lacerante il dramma di Flaminia, madre con un passato da estremista di destra che si trova in conflitto con la polizia?
Questo è sicuramente uno dei temi del libro, ed è ovvio che venga fuori perché è legato in qualche modo alla mia biografia personale. Da persona di destra, quando lo ero e mi definivo così, ho sempre partecipato alle commemorazioni di persone uccise, come Giorgiana Masi. La destra era sensibile al tema della legalità: difendere lo stato e difendere le forze dell’ordine significava anche prendere atto del fatto che qualcuno sbagliava, mentre di recente questo atteggiamento è cambiato.
Sul sito de «Il fatto quotidiano», lei dichiara: «Ho difficoltà a definirmi. la destra in cui credo (credevo?) – legalitaria, libertaria, all'avanguardia nei diritti e nello spirito civico – non esiste e forse non esisterà mai". Perché in Italia non è stata possibile l'affermazione di una destra credibile e affidabile, del genere ad esempio di quella francese?
Perché la chiave del populismo e del consenso facile ha prevalso su tutto. Siamo passati da una fase in cui la destra era emarginata e ghettizzata a una fase in cui è entrata nel circuito del governo, è stata “sdoganata”, come si dice usando una bruttissima parola, ma in cui il populismo era già egemone nel linguaggio politico. La destra si è fermata lì.
Flaminia, la sua protagonista, compensa il crollo della fiducia nelle istituzioni con un atto di giustizia-fai-da-te. Perché questa scelta?
Su questo ho cercato di essere sempre molto precisa, anche parlandone durante le presentazioni del libro: io non credo assolutamente nella giustizia personale, che è una cosa che mi fa orrore. La protagonista del romanzo io la vedo come una persona che riscopre un sentimento del tutto scorretto, e molto ancestrale, che è quello della vendetta: lei non vuole giustizia, si vuole vendicare.
Molto spesso credo che noi abbiamo esistenze educate, corrette, borghesi, in cui abbiamo pensato di cancellare quelle cose profonde che ci arrivano da altre epoche, che fanno parte dell’umano. Sembrano tenute a bada in qualche modo dalla modernità, ma invece resistono nel fondo del cuore. Flaminia potrebbe benissimo cercare di ottenere giustizia, ma in fondo non ci prova neanche, perché fin dall’inizio ha una reazione ancestrale, molto differente da quella che è una ricerca della giustizia.
La percezione dell’ingiustizia come qualcosa di irreparabile è molto legata alle donne, anche sul piano storico. Noi abbiamo sempre visto, in quei casi che abbiamo citato prima, ma anche in altri, agire le donne: le sorelle, le mogli, le madri. Ci sono state “le madri di Plaza de Mayo”, non i padri! In qualche modo gli uomini, che forse stanno nello spazio pubblico in modo più consapevole, si rassegnano alla fatalità delle cose e all’ingiustizia, mentre le donne hanno per prima cosa un rapporto biologico con la maternità, non strappano mai il cordone ombelicale con i figli, ma soprattutto non si rassegnano.
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Tutta la politica, sia a destra che a sinistra, sembra oggi incapace di trovare nuove figure di riferimento, dopo la scomparsa della generazione dei "padri costituenti", col risultato di allontanarsi sempre di più dai cittadini, e in particolar modo dai giovani: la militanza politica, così diffusa negli anni Settanta, è quasi azzerata. Secondo lei questo è un processo irreversibile o si troverà un modo per riavvicinare i giovani alla politica?
No, per me è un processo irreversibile. La politica degli anni Settanta era legata a delle costruzioni ideologiche molto precise, che non si ripeteranno più per chissà quanti decenni o secoli, però nel libro il tema della militanza voleva essere solo uno spunto. In fondo la protagonista potrebbe avere anche un passato diverso, magari borderline oppure da delinquente.
La questione della militanza, per me, è stata soprattutto un’occasione per raccontare e descrivere i rapporti personali, le amicizie, per come erano intese dalla mia generazione: in un modo estremamente forte e permanente nel tempo. Ed erano amicizie in cui c’era uno scambio, un dare e avere, un rischio anche che ci si assumeva scegliendo gli amici. Io spero davvero per le nuove generazioni che questo tipo di amicizie così forti, che sembravano davvero indissolubili, possano esistere ancora, ma temo che non sia più possibile.
Credo che la qualità e la forza di quelle amicizie sia stata una caratteristica della mia generazione, e che oggi ne esista una versione più usa-e-getta, lontana da legami così forti. Le nostre amicizie di allora sono state cementate da esperienze personali molto forti e pervasive, che hanno costruito le nostre personalità. I giovani di oggi non hanno le stesse opportunità di quegli anni turbolenti, ma anche molto creativi, della nostra adolescenza. Credevamo nella musica, nell’arte, nella letteratura oltre che nella politica.
Lei ha alle spalle una lunga carriera giornalistica, ma Le lupe è la sua prima opera di narrativa. Pensa che ripeterà quest’esperienza?
Sono molto sincera su questo: la priorità che mi sono data scrivendo questo libro era di raccontare una storia in cui la trama dovesse fare riferimento all’amicizia, alla giustizia, alla vendetta. Doveva anche essere un racconto che stesse in piedi e invogliasse a voltare le pagine, non volevo scrivere come una giornalista.
Di solito, quando si dedicano a un romanzo, i giornalisti scrivono molto male perché tendono a utilizzare lo stesso linguaggio che hanno usato per anni sui giornali, mentre io ho cercato di dimenticarmi tutto quello che avevo imparato nel giornalismo.
Nel libro ci sono molte questioni che restano sullo sfondo. Ad esempio non ho citato gli autori dei brani musicali che costituiscono una playlist del libro, cosa che da giornalista avrei fatto. Volevo provare a scrivere una storia in cui certi particolari possono restare insignificanti, mentre è più importante suscitare emozioni. Alla fine l’esperienza è stata positiva.
Alcune parti le ho scritte proprio di getto, come le prime trenta pagine, mentre altre, come le biografie dei personaggi che s’intrecciano tra loro, hanno richiesto un lavoro di montaggio un po’ complicato.
Il dopo dipenderà dal successo che potrà avere questo libro, perché io sono molto pragmatica: se andrà bene, avrà una buona accoglienza da parte del pubblico e susciterà interesse, si potrà pensare ad altro, altrimenti potrà anche restare un’esperienza singola. L’avvio, per ora, sembra molto buono e una delle cose che mi sta piacendo di più di questa esperienza è l’interazione con Facebook. Ho aperto una pagina dedicata al libro, dove raccolgo non solo le recensioni dei giornali, ma anche quelle dei lettori, che me ne hanno già mandate tantissime, proprio perché volevo avere una specie di test sul mio lavoro, per capire come veniva letto dalle persone. Questo mi sta dando molta soddisfazione, anche perché alcune analisi colgono punti a cui io non avevo nemmeno pensato mentre scrivevo.
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