Quando il nostro corpo si ammala. “Di chi è questo cuore” di Mauro Covacich
Puntata n. 64 della rubrica La bellezza nascosta
«In acqua si può perdere i sensi? Penso alle centinaia di scene, nei film, nei cartoni animati, in cui lo svenuto viene risvegliato da una secchiata d’acqua. No, non può succedermi finché nuoto. Basta che tenga la faccia sempre sotto. Basta che respiri il meno possibile. Mi vedo disteso accanto alla scaletta, il bagnino che mi osserva a un palmo dal naso – il fiatone, la maglietta fradicia, gli occhi sgranati – mentre rigurgito un rivolo di colazione ai piedi dei curiosi raccolti in cerchio sopra di me. Oppure non si accorge di niente, resta a leggere il suo Kindle e io galleggio bocconi nell’indifferenza generale, con gli ultimi residui di ossigeno che si ritirano dal cervello come aloni di vapore sul vetro.»
Andiamo incontro alle nostre giornate pensando, quasi mai, alla nostra carne, al nostro corpo. L’involucro che ci tiene insieme, le ossa, gli organi, sono tutte cose a cui, nella frenesia delle nostre ore, diamo la minima attenzione e, nella maggior parte dei casi, nemmeno quella. La natura, però, ci mette davvero poco a farci tornare alla realtà e a farci comprendere che quel corpo, quella pelle, quelle mani, sono fragili, e sono l’unico strumento che ci permette di stare al mondo.
Anche se corpo e mente sono strettamente connessi, le persone pensano a quest’ultimo come a qualcosa di distante, e soprattutto, fin quando non incombe un’anomalia, credono che il corpo possa essere una cosa indistruttibile. Poi accade qualcosa, un dolore, un disturbo, una visita, e il mondo cambia, ci si accorge di possedere un cuore o uno stomaco o un cervello, e ci si accorge che quel cuore, magari, non funziona più e, proprio nel momento esatto in cui smette di essere perfettamente funzionale, diventa, per noi, reale.
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Mauro Covacich è nato a Trieste nel 1965, Di chi è questo cuore è stato pubblicato dalla casa editrice La nave di Teseo.
Il narratore, che sembra davvero molto l’autore Covacich, inizia questo romanzo raccontandoci una visita di inidoneità sportiva in cui gli scoprono un piccolo malfunzionamento al cuore. Lui, sportivo accanito, raccoglie la cosa, inizialmente, con scetticismo, come se quella notizia non gli appartenesse per davvero. Dopo aver pensato a fondo alla questione, si vede costretto a cambiare il suo stile di vita, a rinunciare alla sua estenuante attività sportiva, e tutto questo lo porta a passare più tempo con e tra la gente. Inizia così un romanzo su quello che siamo e quello che pensavamo di essere; su ciò che rappresenta il corpo e su quali limiti ci impone.
«Posso morire,» dico. Per un attimo resta in silenzio. E se un giorno morissi davvero? penso. Se anch’io un giorno dovessi andarmene da qui? La stessa incredulità di mio padre ormai agli sgoccioli: com’è possibile che stia succedendo proprio a me? «Quella è una piccola cosa, l’ho vista in tanti atleti.» E io penso: una piccola cosa, ma non viene da sola. «Comunque tutti possiamo morire. In continuazione, in ogni momento,» aggiunge lui. E io penso: chi mi sfilerà i pantaloncini al pronto soccorso? Si accorgeranno del bigliettino? «Oh, ci sei? Insomma, voglio dire, bisognerà pur morire in qualche modo, no?» Metto giù. Apro il taccuino, segno la battuta.
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Di chi è questo cuore è un romanzo intimo, somiglia a un luogo familiare, dove le cose appaiono comuni e dove i rapporti umani sono fedeli a quelli di qualsiasi lettore. C’è la forza narrativa di Covacich, in queste pagine, e c’è la sua scrittura: piana, mai forzata, misurata, vigorosa quando serve. Ci troveremo insieme al narratore per le strade di Roma, in un ristorante a cena con i suoi amici, al fianco della moglie, nel letto di casa, appena prima del sonno. Somiglia a un diario, questo libro, somiglia a una confessione, dove l’essere umano e il suo corpo diventano materiale essenziale e non più contorno.
«Le benzodiazepine fanno sempre meno effetto. La seconda compressa di Lendormin mi ha procurato un indolenzimento alla mandibola e il solito filtro verdognolo davanti agli occhi che diventerà sonno vero solo all’alba, quando non servirà più. Mi aggiro per le strade in pantaloncini corti e ciabatte da piscina cercando di liberarmi del fiato mozzo che mi impedisce di dormire, ma forse il senso di soffocamento è la conseguenza e non la causa dello stare disteso per ore sveglio. Chi lo sa, è una spirale di disturbi di cui non sono certo in grado di ritrovare il principio.»
Le parole di Mauro Covacich sono da leggere e da assaporare con calma, senza fretta. Ci possiamo scoprire, dentro, tutte le nostre inquietudini, le nostre nevrosi, le paure che ci affollano i sogni e ci costringono, spesso, alla veglia nelle ore di buio.
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Cosa accade quando ci sentiamo traditi dal nostro corpo? In che maniera è possibile, successivamente, tentare di trovare nuovamente fiducia in quel corpo?
Per la prima foto, copyright: Todd Quackenbush su Unsplash.
Per la quarta foto, la fonte è qui.
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