Quando il noir incontra la realtà. Intervista a Federica Fantozzi
Si dice spesso che gialli e noir siano in grado di raccontare la realtà che ci circonda in modo spesso preciso, quasi chirurgico. E a confermare questa posizione è Federica Fantozzi, da poco in libreria con Il meticcio, che segue Il logista, romanzi entrambi editi da Marsilio e incentrati sulla figura della giornalista-detective, Amalia Pinter.
Se la precedente avventura aveva spinto Amalia a indagare su una strage jihadista, adesso si trova alle prese con mafia nigeriana. Due argomenti caldi, di stringente attualità, che Fantozzi pone al centro dei suoi libri e delle indagini/inchieste di un noir che si fa sempre più romanzo sociale.
Proprio di questi temi abbiamo discusso con Federica Fantozzi.
Il meticcio è il secondo romanzo della serie che vede come protagonista Amalia Pinter. Chi è Amalia? Può provare lei a descriverla ai nostri lettori?
Amalia è una giornalista giovane, egocentrica, ostinata, a volte scorbutica. Alcuni lettori mi hanno fatto notare che, nonostante interagisca con i suoi genitori e con Alfredo, di fondo è una solitaria. Il suo Capo al giornale dice che ha la tenacia di un bulldog e possiede una qualità cruciale per i cronisti: la capacità di scremare il superfluo dalla notizia vera, ossia il killer instinct. È un’idealista ma per lei, a volte, il fine giustifica i mezzi: quando nel Logista si finge dog trainer per insinuarsi a casa di una vittima o quando nel Meticcio parte per una spedizione in un campo di pomodori dove sospetta si nascondano emissari della mafia nigeriana senza curarsi di avvertire il suo amico Alfredo.
Il suo problema è l’“amaliacentrismo”: è talmente convinta di essere nel giusto che fatica a cogliere il punto di vista degli altri. Sul piano umano è un difetto, sul piano professionale non lo so. Amalia non sono io, ma in lei spuntano tratti familiari: la tendenza ad adottare quadrupedi randagi e la propensione alle rispostacce che a volte sfugge al controllo.
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La letteratura di genere presenta alcuni casi di investigatori di sesso femminile. Come si inserisce Amalia Pinter in questa “tradizione” e per quali aspetti si differenzia dalle eroine che l’hanno preceduta?
Non penso che esista una tradizione. Le detective donne sono ormai tantissime e molto diverse tra loro: da Miss Marple a Clarice Starling del Silenzio degli innocenti a Kay Scarpetta di Patricia Cornwell. Alcune sono poliziotte o agenti segreti, quindi titolate a indagare, altre si trovano invischiate nei crimini in modo più laterale, come l’anatomopatologa di Alessia Gazzola o la tassista di Nora Venturini. Amalia rientra in questa seconda categoria, e credo che a differenziarla dalle colleghe siano il suo carattere e il tipo di avventure molto adrenaliniche che vive.
Ne Il Logista Amalia si trovava a indagare su una strage jihadista, qui invece sulla mafia nigeriana e lo sfruttamento delle risorse minerarie. Quanto incide la fase di documentazione e ricerca preliminare nella preparazione delle sue storie?
Molto. Ho l’imprinting da giornalista e per me una buona storia ha sempre i piedi della cronaca. E senza una buona storia non esiste un buon giallo: personalmente non amo i romanzi intimisti; voglio un plot solido, avvincente, con il ritmo serrato. Un page-turner, come dicono gli anglosassoni. Il Logista nasce dopo essere andata per il mio giornale, «l’Unità», a Parigi come inviata dopo la strage del Bataclan. Nel Meticcio mi interessava indagare i traffici della criminalità organizzata, e soprattutto le dinamiche con cui penetrano la nostra società senza che la maggior parte di noi se ne accorga. Un amico giornalista mi ha suggerito di documentarmi sull’Ascia Nera, la mafia nigeriana di cui non sapevo nulla, e si è rivelato un consiglio azzeccato. Sono dei cattivi pericolosi, molto vicini e altrettanto misteriosi. E dietro di loro c’è un esercito di gente che sfruttano e minacciano, anche usando i riti voodoo, affinché diventi la loro “carne da cannone”.
Quali sono i rischi da evitare quando si affrontano temi così spinosi e sui quali si concentra molto l’attenzione dell’opinione pubblica, spesso anche in modo violento?
Un romanzo non deve essere moralista. O meglio, alla fine esprime sempre un punto di vista, che il lettore inevitabilmente coglie, ma deve lasciarlo affiorare senza spingerlo. Una lettrice mi ha scritto che la parola “meticcio” è razzista. Certo, non è una bella espressione: nasce nel contesto dei conquistadores in America Latina, indica i figli di un bianco e un’indigena, evoca sofferenze e umiliazioni di un lungo periodo storico. Al di là della trama, di cui non voglio rivelare nulla, per me indica un confine, una contaminazione, un’ambiguità tra bene e male. E del resto, oggi come oggi, preferisco il termine “meticcio” a “sovranista”.
Quali sono le tre regole d’oro secondo lei per il perfetto noir? E quali invece gli errori assolutamente da evitare?
Mah, dubito che esista una ricetta. C’è un calderone di ingredienti che danno risultati diversi a seconda della mano che li mischia. John Dickson Carr era un mago nei delitti della camera chiusa, che in mano ad altri sarebbero apparsi enigmi cervellotici… L’americana Lisa Gardner riesce a fabbricare gialli terrificanti che ruotano intorno a bambini e adolescenti senza mai recidere l’ultimo filo di speranza. I miei tre obiettivi – che spero di cogliere – sono un linguaggio che non sbrodoli, una trama senza slabbrature e un’idea di fondo originale. Lo ripeto: la trama prevale anche sui personaggi, che pure devono essere intriganti in modo che il lettore non li dimentichi un minuto dopo aver chiuso il libro.
L’errore più temibile? Sviste e refusi purtroppo capitano, per questo il lavoro dell’editor è fondamentale e averne uno bravo è molto importante. Dal punto di vista dell’impianto narrativo, però, penso che uno scrittore debba evitare gli appesantimenti, le digressioni inutili, l’autocompiacimento per le belle parole. Nel mio primo romanzo, Caccia a Emy, tanti anni fa, l’editor mi cassò intere pagine di informazioni sulle balene: «Il lettore deve intuire che sai, non essere oberato di dettagli inutili» ripeteva. Aveva ragione.
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Immagini di avere davanti un lettore scettico verso il noir. Cosa gli direbbe e quali libri gli consiglierebbe di leggere?
Se un lettore ha gusti diversi – ama le storie d’amore o i trattati di entomologia – non c’è niente da fare. Se invece il suo scetticismo è frutto di un (diffuso) pregiudizio verso i romanzi di genere, per debellarlo basterebbe leggere Simenon, Izzo, De Giovanni. È ormai noto che gialli e noir riescono a raccontare la realtà in modo acuto ed efficace, oltre a costituire un piacevole passatempo.
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Per la prima foto, copyright: Darya Skuratovich su Unsplash.
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