Quando i rapporti di sangue non sono autentici. “Poche rose, tanti baci” di Francesca G. Marone
Puntata n. 33 della rubrica La bellezza nascosta
«Giorgio non è mai stato una mia abitudine, nell’accezione negativa del concetto di ripetizione. La ripetizione, va detto, non è il male: il rituale del caffè, allo stesso bar, è familiarità, Caterina che si addormenta per anni abbracciata allo stesso orso di peluche è calore. La ripetizione giornaliera dell’amore, quando viene a mancare, è assenza. Quando è stato il momento in cui ho cominciato a perderlo, io non so dirmelo.»
Esistono rapporti mai nati, obblighi relazionali di carne che non hanno mai superato un certo livello di familiarità; legami di sangue che nel sangue hanno riconosciuto l’unico effettivo legame, che di parole e comprensione e abbracci ce n’era un’assenza. A volte, senza accorgercene, attuiamo dei meccanismi per sabotare la nostra relazione con la persona che con noi condivide la vita; lo facciamo silentemente, mettendo una mancanza a caso, da qualche parte, un giorno; dando poca attenzione a un evento, un altro giorno, senza farlo coscienziosamente. Ma alla fine, c’è una somma di tutte le piccole cose che abbiamo compiuto, un totale a cui nessuna vita riesce a sfuggire, e molto spesso il conto da pagare è alto e inaspettato, anche se poi, in fondo, di inaspettato non dovrebbe esserci davvero nulla. E poi ci sono quei rapporti estranei, quelle persone che ci appaiono straniere anche se portano il nome di padre o di madre. Quei genitori che sembrano averci messo al mondo quasi con inconsapevolezza, che si ritrovano ad avere a che fare con le nostre domande e il nostro bisogno di attenzione, quando loro stessi sono i primi che ancora ricercano gli affetti bambini.
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Francesca G. Marone è una sociologa e counselor, è nata e lavora a Napoli, il suo romanzo Poche rose, tanti baci è stato pubblicato da Castelvecchi, lo stesso romanzo è una rielaborazione del manoscritto Lui così estraneo che ha ricevuto una segnalazione al premio Calvino.
La protagonista di queste pagine è Maria Giulia, una donna separata con dei figli che si trova a dover tornare verso casa e verso quel padre con il quale non si sente da tre anni, e verso il quale ha sempre provato un moto di estraneità; un rapporto, quello tra lei e il padre, mai decollato, fatto di silenzi, di omissioni, di frasi inutili lasciate al caso, di affetto mancato o che arrivava poi solo a parole nei momenti, forse, più inopportuni. In questo viaggio interno ed esterno che compie Maria Giulia, ci sono anche i suoi conti con la separazione da Giorgio, ex marito e padre dei suoi figli.
«Esiste un punto preciso in cui si inizia a perdere l’amore. E in quel crocevia di distrazioni e inganni ci perdiamo anche noi, sbagliamo strada e incappiamo nell’unica cosa in cui non dobbiamo cadere: la distrazione. L’amato non ci appartiene mai. Giorgio non è mai stato veramente mio, avrei dovuto inseguirlo, accarezzarlo come si fa con un oggetto fragile e di valore, proteggerlo non dalle minacce esterne, ma solo dalla mia tentazione di distrarmi da lui. E dimenticare l’amore.»
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La maniera con cui Francesca G. Marone ci racconta questa storia ha a che fare con la cura, la sua scrittura è piana, leggera, non eccede mai in inutili virtuosismi; le sue frasi sono essenziali, il suo andare avanti e indietro nel tempo risulta così molto lieve e mai faticoso da seguire.
Non c’è banalità, tra queste righe, né facile autocommiserazione; e tutta la narrazione risulta molto dolce, come una carezza.
Poche rose, tanti baci è un romanzo sulla perdita e sull’accettazione di questo movimento; un libro sui rapporti di sangue che non raggiungono mai uno stato di perfezione; sono, queste, pagine piene di rimproveri verso se stessi, a volte pacati, altre volte violenti.
«Quando esco da lì sento un enorme peso in mezzo al petto, come una grossa palla che preme dentro, sulle costole e si ingrossa e sale fino alla gola. Mi fermo accanto all’automobile per un attimo, giocherellando con le chiavi. Respiro e sento freddo. Magari potrei chiamare anche mio fratello, potrebbe venire a dare una mano. Domani lo farò, ora voglio solo andare a casa e fare una doccia per togliermi quell’odore di disinfettante e gomma consumata. Sarà il linoleum che puzza così, sarà l’odore della malattia. Sarà che non è il mio posto.»
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Appartenere a qualcuno, sentirsi dentro un legame che futilmente ci appare indissolubile. Pensare che un altro essere umano possa essere nostro, avere percezioni di possesso che non significano nulla e che recano solo danni e crepe al rapporto.
Cosa sia giusto e quali leggi valgano tra due persone che percorrono un pezzo di vita insieme è davvero difficile da capire; certo è che a volte si creano distanze anche tra due persone che dormono tutte le notti fianco a fianco; in alcuni momenti, lottare per non perdere qualcuno è come essere in mare aperto e dibattersi, si rischia di affogare. In alcuni eventi bisogna lasciar fare alla vita, e se quello che ne viene poi non ci piace, non possiamo fare altro che provare a incassare e andare avanti, magari cercando colpe che non esistono, dentro il nostro corpo.
Per la prima foto, copyright: Sam Headland.
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