Quando giudichiamo inutile una vita. “Madonna col cappotto di pelliccia” di Sabahattin Ali
Puntata n. 60 della rubrica La bellezza nascosta
«Sdraiato a faccia in giù sul letto, aprivo il mio libro e restavo lì per ore con uno spesso e datato dizionario a portata di mano. In molti casi mi spazientivo solo a sfogliare le pagine alla ricerca del vocabolo e mi sforzavo di interpretare il significato di una parola in base al suo contesto. Era come se davanti a me si stesse schiudendo un mondo tutto nuovo. Stavolta le mie letture non parlavano solo di eroi straordinari che si imbarcavano in avventure inaudite, come accadeva con la letteratura tradotta della mia infanzia e della mia giovinezza. In ognuno di quei volumi ritrovavo qualcosa di personale, frammenti del mondo che vedevo e sentivo intorno a me. Mi parlavano di cose che non riuscivo a comprendere o a vedere pur avendole vissute in prima persona, e solo ora riuscivo a dare loro un senso.»
Delle volte ci capita di passare intere giornate in una stanza con una persona, di osservarne i movimenti, i gesti, le espressioni del viso. Succede, poi, di intraprendere lunghe conversazioni con il nostro compagno di stanza, e di farci un’idea, un nostro personale resoconto di chi sia e di come viva quell’individuo. Riusciamo a convincerci in maniera parossistica della nostra soggettiva visione della realtà, e andiamo avanti per la nostra strada. Poi accade qualcosa, un po’ come se una nebbia che, fino a poco prima ci avvolgeva la mente, iniziasse a diradarsi, arriva un evento e ci accorgiamo che quella persona, di cui credevamo, oramai, di sapere tutto, è molto lontana da ciò che avevamo lungamente immaginato. Cosa resta da fare se non distruggere tutto ciò che avevamo costruito? Nella vita che viviamo ogni giorno, in che misura possiamo dirci certi di sapere con chi condividiamo le nostre giornate? Ma è possibile che ci sarà sempre uno straniero, o per lo meno, una parte straniera di una persona che difficilmente riusciremo a rendere familiare.
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Sabahattin Ali è uno scrittore turco, nato a Egriede nel 1907 e morto nel 1948 al confine con la Bulgaria. Madonna col cappotto di pelliccia è stato pubblicato di nuovo in Italia da Fazi editore, con la traduzione a cura di Barbara La Rosa Salim.
Un giovane, che non riesce a trovare lavoro e vive in una situazione economica disastrosa, si lascia convincere da un conoscente, Hamdi, a lavorare per lui. Inizia così a condividere l’ufficio con un uomo strano e schivo: Raif Efendi. Un individuo che non ha mai destato l’interesse di nessuno, nonostante sia uno dei più anziani dipendenti. Ma, con il passare dei giorni, Raif Efendi inizia ad attirare l’attenzione del giovane appena assunto. Un giorno Raif Efendi non si presenta a lavoro e il nostro narratore viene a sapere che le sue assenze non sono rare. Si reca, dunque, a casa del suo compagno di stanza, e qui si accorge che anche i familiari finiscono per trattare Raif Efendi in malo modo. Inizia così a porsi delle domande, a chiedersi perché mai quell’uomo sopporti tutto e che tipo di scopo possa avere quella vita.
«L’unica cosa che provavo era un immenso vuoto dentro di me. Quello che credevo il periodo più significativo e più pieno della mia vita tutt’a un tratto non aveva più senso. Era rimasto solo un vuoto enorme. Ero afflitto come uno che si era appena risvegliato dal più dolce dei sogni e si trovava costretto ad affrontare la cruda realtà. Davvero non ero offeso, né provavo rabbia nei suoi confronti. Ero solo triste. «Non doveva andare così», mi dicevo. Non riusciva in nessun modo ad amarmi. Aveva ragione. Nessuno mi aveva mai amato. Del resto le donne erano delle creature piuttosto bizzarre. Quando cercavo di formulare un giudizio su di loro, ripensando a quelle che avevo conosciuto, arrivavo alla conclusione che erano incapaci di amare veramente. Non lo facevano nemmeno quando era nelle loro possibilità.»
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Madonna col cappotto di pelliccia è un romanzo che possiede una rara prosa poetica, il ritmo perfetto e drammatico dell’intera opera accompagna il lettore tra le pagine e i misteri che man mano si svelano sulla vita di Raif Efendi rendono avvincente e interessante l’intera costruzione narrativa. Sabahattin Ali ci descrive una vita che sembra passare inosservata, un’esistenza che pare essersi arresa agli eventi, ma che, invece, nasconde un fuoco e un ardore che in un passato lontano l’hanno portata a bruciare e a vivere in maniera appassionata, e soprattutto ad amare.
«Che cosa si può fare quando tutto si rivela essere un sogno, un’illusione, una chimera? Avevo perso la capacità di credere e con essa quella di sperare. La mia sfiducia e la mia amarezza nei confronti degli altri erano così profonde che talvolta provavo anch’io una certa inquietudine. In tutti coloro che incontravo, intravedevo una certa ostilità o, quantomeno, trovavo che fossero pericolosi. Questa sensazione non si affievolì con il passare del tempo: di anno in anno si fece sempre più pressante. La mia diffidenza nei confronti delle persone si trasformò in livore. Ero sempre schivo nei confronti di chiunque volesse approcciarsi a me.»
Ci troviamo a leggere un romanzo dotato di una tragicità feroce, che ci racconta di sentimenti assoluti e forti e totali; gli stessi sentimenti che compongono la linea emozionale di ogni singolo essere umano. Quest’opera, poi, è resa ancora più interessante perché si sa davvero poco sulla vita del suo autore, che è morto all’età di 41 anni, ucciso dalla polizia mentre provava ad attraversare il confine con la Bulgaria.
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Ci capita di giudicare come inutili alcune vite che sfioriamo, con cui ci scontriamo; le giudichiamo inutili con uno sguardo, dopo due o tre conversazioni, schiavi della nostra visione soggettiva e atavica del mondo; nessuno, però, ci mostra mai veramente quello che nasconde, nessuno ci spiega per bene quale sia la sua missione al mondo. Bisognerebbe essere bravi a vivere senza avere la presunzione di aver capito.
Per la prima foto, copyright: Ismail Hamzah su Unsplash.
Per la quarta foto, la fonte è qui.
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