Premio Strega 2018 – Estratto da “La ragazza con la Leica” di Helena Janeczek
Questo sembra essere proprio l’anno di Helena Janeczek che, dopo la cinquina del Premio Campiello, conquista anche quella del Premio Strega 2018. E lo fa con un libro, La ragazza con la Leica (Guanda), che riporta l’attenzione su Gerda Taro, intellettuale e fotografa tedesca, morta a soli 27 anni mentre documentava la guerra civile spagnola.
Dopo aver recensito il libro e aver intervistato Helena Janeczek nell’ambito del nostro speciale dedicato al Premio Campiello, qui di seguito proponiamo – per gentile concessione dell’editore e dell’autrice – un estratto da La ragazza con la Leica.
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L’altro giorno rigirava quelle conclusioni dopo essere andato dal suo barbiere in via Sicilia, quando, scendendo per via Veneto, ha visto gli scrittori e gli accademici tedeschi che usano fare della veranda del Doney il loro Stammtisch. Erano così riconoscibili dalla mimica e dai gesti misurati che conferivano un aspetto provinciale ai capi acquistati nelle sartorie raccomandate, benché le voci fossero coperte dai clacson dei giovani in motorino che salutavano gli amici seduti per l’aperitivo e dallo schiamazzo degli americani – gente che gravita intorno al cinema o all’ambasciata e al Café Doney tiene corte. Persino la bionda poetessa, celebratissima in Germania, sembrava una timida paesanotta della Carinzia nel viavai di quella compiaciuta mondanità. Però magari la intimoriva il suo compagno svizzero, non meno famoso come autore di romanzi, e attraente come può esserlo una ranocchia stropicciata che parla con la pipa in bocca.
«Dovresti discettare anche tu della massima di Adorno» ha pensato, spegnendo il mozzicone sotto il tacco.
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All’improvviso, una ragazza che volava verso il ritrovo gli ha fatto balenare Gerda. Lei sì che sarebbe stata intonata all’ambiente, perfettamente a suo agio con camerieri e clienti d’ogni sorta: nei locali di Montparnasse era di casa, mentre a Berlino voleva sempre trascinarlo al Romanisches Café («Offro io! Non ho ancora speso quasi nulla…») dove si incontrava chiunque avesse un nome all’avanguardia.
La giovane italiana lo ha superato sui calzari contadini che Gerda portava in Spagna – espadrille si chiamano adesso che vanno di moda. E lui, in un lampo, ha visto Gerda, non com’era all’epoca, ma come sarebbe stata con quei sinuosi pantaloni alla Capri, il maglioncino in spalla, i capelli vaporosi. Quell’apparizione ha troncato le sue divagazioni, o meglio, vi si è intromessa. Quella manfrina della vita vera e della vita falsa, ti prego Georg, ma lascia perdere…
Il dottor Kuritzkes, però, ammira Adorno, tornato dall’esilio per riprendersi la cattedra francofortese mentre la cultura critica tedesca si presa al ruolo di comparsa della Dolce Vita.
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Hai motivo per rimproverarti di non essere andato a rifare la Germania, accanto a quelli che tengono nell’armadio la croce di ferro? si è detto, come altre volte, ma quel giorno il pensiero si è tinto dell’intonazione limpida e beffarda di Gerda Pohorylle. Così ha disceso le anse di via Veneto in uno stato di divertita meraviglia fin dove si comincia a vedere piazza Barberini. Si è lanciato nel traffico, come ha imparato a Napoli, e poco dopo aver svoltato nella viuzza che incrocia via della Purificazione, si è persuaso che anche questa volta ne uscirà bene. Se ce l’ha fatta a rivoluzionare la medicina l’ispido Bassotto, troverà anche lui qualche spazio, forse modesto, però autonomo, per dedicarsi alle sue ricerche – se non a Roma da qualsiasi altra parte. Basta aspettare il momento giusto, tenere gli occhi aperti.
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