Premio Campiello 2020 – Intervista a Patrizia Cavalli
Leggere Con passi giapponesi di Patrizia Cavalli (Einaudi), se ci si abbandona senza riflessione, è un’immersione nella bellezza, soprattutto estetica. Una bellezza che ci attraversa e ci pungola, lasciando talvolta disorientati, tale è la sua potenza. Senza riflessione perché dopo i primi momenti di godimento letterario emergono la malinconia, la tristezza, la complessità della solitudine. A volte i frammenti di Cavalli sembrano un viaggio epistemologico, una disperata ricerca scientifica dei principi con i quali conoscere davvero le cose. Dalle piccole vicende della vita è possibile entrare nel suo orizzonte, peraltro in continuo divenire perché mai appagato, senza così tracciare un percorso di indagine definito e definitivo, ecco uno degli elementi caratteristici: avanzare cercando un principio per poi ritrovarsi nella consapevolezza che non servirà. Eppure, nonostante lo sfondo di malinconia, di tristezza e di complessità della solitudine, leggere Con passi giapponesi, tra la cinquina finalista del Premio Campiello 2020, dona alla fine uno sguardo non soltanto sul poeta Cavalli, come lei preferisce essere definita, ma sulla storia incredibile e appassionata di una intellettuale fra i migliori della nostra epoca e che grazie a una visione chirurgica satura di vertigini verso l’esistenza ci concede la grazia di provare emozioni rare, in questi tempi confusi e difficili.
Abbiamo rivolto qualche domanda a Patrizia Cavalli, che dall’8 settembre sarà di nuovo in libreria con una nuova raccolta di poesie, Vita meravigliosa, sempre edita da Einaudi.
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Nel fare bagagli lei rivendica i diritti di viaggiatrice pesante che in realtà cela profondità e leggerezze in una stretta relazione con l’immaginazione. È una consapevolezza che ha sempre attraversato il suo tempo oppure è mutata grazie o a causa degli eventi?
Raramente, purtroppo, direi che gli eventi sono capaci di modificare la mia immaginazione. Una volta che qualcosa nasce e si imprime nel pensiero, difficilmente riesco a convincermi del contrario. L’evidenza non è il mio forte.
Quando parla della sedia comodissima dell’Opéra di Parigi, dichiara: «A quali sogni ci costringono gli oggetti». Gesualdo Bufalino disse: «Oggi ho sentito oscuramente farmi festa gli oggetti della mia stanza; dirmi la loro gratitudine perché, esistendo e guardandoli io, esistono essi...»; forse in un rapporto biunivoco fra sensibilità della persona e oggetti si crea una magia che per qualcuno è impossibile evitare?
Sì, forse la poesia e la letteratura sono costituzionalmente animiste. D’altronde, ci sono esseri che sembrano invece essere totalmente indifferenti agli oggetti, che non hanno nessuna predilezione o ripulsa verso di loro. Io invece sono condannata a una continua, assoluta, estenuante attenzione verso ciò che mi sta accanto, e la mia poesia non è che lo specchio di questo tratto del mio carattere.
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Scrive, parlando di sua madre, che fu una donna incapace di sostenere una conversazione per più di quattro minuti, preferendo una risatina a una risposta. Che cosa crede di avere ereditato da lei che con il passare del tempo le sembra che sia diventato sempre più necessario?
Non saprei rispondere a questa domanda. Credo che di mia madre sia importante quanto si è trasfigurato oscuramente in questo racconto, al di là dei fatti e degli eventi veramente accaduti. Rispetto ai lati psicologici, non saprei davvero che cosa dire.
Più volte definisce la sua immaginazione morbosa. Non crede che possa essere stato un suo valore aggiunto per osservare la realtà in modi inconsueti e che coltivandola possa rappresentare una forma di allenamento estetico, oltre che interiore? Estetico nel senso che una certa elegante letterarietà che la contraddistingue sia altresì frutto di tale immaginazione morbosa?
Sì, l’immaginazione è la più potente facoltà umana, quella che ci dà le maggiori ebbrezze ma anche le maggiori pene. Tutto deriva da lì.
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I dettagli sfiorano sempre il suo interesse e di frequente diventano partenza per viaggi di immaginazione. Non di rado l’impressione è che lei ami perdersi nei dettagli per tentare poi di ritrovarsi con nuove consapevolezze ma rimane l’idea che le sintesi e i riassunti non le appartengano affatto: una ribellione forse verso chi pensa con troppa faciloneria di capire in breve e orgogliosamente il senso delle realtà. Abbiamo letto e amato le sue prudenze tanto quanto i suoi guizzi spontanei di confidenza, ma se dovesse pensarsi diversa, come sarebbe se non avesse dedicato la vita anche alla poesia?
Avevo grandi ambizioni, e immaginavo inizialmente qualcosa che mi desse una gloria duratura tra i miei contemporanei: qualche professione eroica, che salva le vite. Oppure avrei potuto fare lo chef, con cui avrei ottenuto glorie più intime, forse, ma altrettanto definitive.
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