Premio Campiello 2020 – Intervista a Francesco Guccini
Tralummescuro è più di un romanzo. È come immergersi in un fiume con il fondale sabbioso: a tratti s’incontrano i sassolini che pungono, massaggiano la pianta del piede, rallentano il cammino, stimolano la circolazione, non solo del sangue, ma anche dei pensieri. È un fluire in mezzo a una realtà che esiste ancora solo nei ricordi, nei confini di una sensazione. Lo straordinario di questo fluire, di questo cammino nelle acque del fiume, limpide, nonostante il fondale sabbioso, è il tempo. Ci sono rumori, profumi, colori che si alternano permettendoti di vivere il tempo in un modo altro da quello dettato dalla consuetudine, tipico dell’oggi.
Francesco Guccini regala al lettore non solo i ricordi che albergano nel cuore della Pavana, gli regala il suo tempo. E non è una meraviglia forse, riuscire a regalare il tempo, quell’idea sfuggevole che non si può nemmeno definire, se non in funzione di se stessa?
Esce per Giunti, Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto ed è il racconto di Pavana, piccolo paese tra Emilia e Toscana, oggi ormai quasi disabitata. Si racconta di un mondo in cui si andava al fiume per imparare a nuotare, si camminava per chilometri per andare a ballare o al mercato, in bottega ci si intratteneva in conversazioni e il tempo, il tiranno indefinibile, scorreva secondo alti ritmi, più miti, più indulgenti.
Non è la malinconia il sentimento che si coglie dalle pagine, non c’è la «bile nera», perché non c’è «la gioia di essere tristi», per dirla con Hugo, in Tralummescuro. Una gioia, però, c’è ed è quella del viaggio, di un viaggio della memoria, che ricuce le maglie del passato, giocando con spensieratezza per ridonare forma a qualcosa che si pensava perduto. L’ago che cuce è la lingua. Non il dialetto, e non l’italiano, ma, in qualche modo, entrambe. È la lingua vera, quella che scivola sulle labbra di chi la parla, nei pensieri di chi sogna e fantastica, che vibra nella gola di chi la canta. È la lingua del tempo, si potrebbe dire, di quel tempo che viene scucito e ricucito per permettere al lettore di immergersi nel fiume dal fondale sabbioso.
Candidato al Premio Campiello, con Francesco Guccini abbiamo parlato di alcuni temi del romanzo, tra cui appunto, quello della lingua, ma anche della Storia e del ricordo.
Tralummescuro, il titolo: a cosa si riferisce?
Il titolo lo si potrebbe tradurre in italiano con «all’imbrunire». Però «tralummescuro» è la versione dell’italiano parlato nel paese di cui racconto, di conseguenza è la lingua usata nel romanzo.
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La lingua è veicolo, porta con sé la vita, il passato, le usanze, tradisce in qualche modo i pensieri di una società. Quando dico questo, mi riferisco per esempio al dialetto, che è lingua parlata e viva, ancor più dell’italiano scritto. Ora, i giovani parlano sempre meno il dialetto, lo capiscono sempre meno, inevitabilmente si perde un pezzo di storia, di quella vera. Cosa può dirmi riguardo alla lingua che ha scelto di usare nel romanzo?
A casa mia ho sempre parlato due dialetti abbastanza diversi, quello di mio padre e quello di mia madre, oltre all’italiano. Quindi, ci sono più vocabolari, anche in sovrapposizione.
Non è tanto il dialetto, quello che uso nel libro, ma l’italiano parlato in questo paese. Il dialetto è quasi scomparso, purtroppo. Qualche anno fa si diceva che lo parlassero solo gli anziani, ora gli anziani siamo noi. Un tempo, invece, il dialetto apparteneva alla vita. Ci si esprimeva sempre in dialetto, in casa, in bottega. Le dichiarazioni d’amore venivano espresse in dialetto.
Questa località, Pavana, essendo toscana, era stata facilitata a passare al registro italiano.
Quello però era un mondo particolare: c’era una libertà di tempo. Il tempo durava di più. Quando si entrava in un negozio, si parlava, si chiacchierava. Se qualcuno di oggi arrivasse in un negozio di allora, si spazientirebbe all’istante. C’erano le chiacchiere, le storie raccontate, mentre adesso tutto si accavalla, a ritmi veloci e questo si riflette anche nella lingua.
Uso questa lingua che non è dialetto, ma italiano parlato, per dare le caratteristiche vere di queste persone di cui parlo e che non esistono più, persone importanti per me, specie per quello che hanno fatto, sebbene non si tratti di nulla di particolare.
La lingua italiana è stata un po’ snaturata, un po’ violentata, è diventata il linguaggio della televisione, della pubblicità, dei cliché, invasa dall’inglese anche quando si possono dire le cose in italiano.
L’idea era quella di tornare a questa lingua che è vivace, che è bella, che è tralummescuro.
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Fa una riflessione che è molto sentita, specie dalle generazioni giovani. Il rapporto con gli animali, con il consumo della carne. L’abuso, secondo lei, ci ha fatto perdere il senso della natura? In un senso e nell’altro, intendo dire: consumo eccessivo, da un lato, rifiuto dall’altro?
Io parlo di un mondo e di una cultura che non esistono più. La civiltà contadina aveva un rapporto curioso con gli animali. C’era un’innocente crudeltà data dalla sopravvivenza. Di carne, se ne consumava poca. Ricordo i miei nonni che andavano a comperare la carne una volta alla settimana, la domenica. E non si trattava di bistecche, ma di lesso. Le bistecche le ho conosciute soltanto da adulto. Però si ammazzavano conigli e galline, o quello che si teneva intorno a casa. Perché dico innocente crudeltà? Perché era fatta in maniera naturale. Allora, da ragazzo, da bambino, guardavo ammazzare i conigli senza fare una piega, cosa che ora mi darebbe un enorme fastidio. Addirittura l’uccisione del maiale era una festa. Quando dopo l’Epifania si uccideva il maiale, era una festa perché si aveva la carne per tutto l’anno. Era una grande festa e al contempo una cena barbarica. Adesso non la sopporterei più. Questa civiltà che faceva grande uso di verdura perché non aveva altre risorse, era necessariamente sobria.
Mi fa ridere adesso quando le diete dicono di non mangiare il pane ché fa ingrassare. Allora, da bambino mi imponevano di mangiarlo. Il companatico era esiguo, mangiare il pane dava un po’ di energie. Era un mondo molto diverso.
«Adessa risplendono tutti i monti delle luci delle case e dei lampioni, come in un presepio, e ci sono luci in tutti i monti qui attorno». Si può dire che c’è un prima migliore e un dopo, di conseguenza, peggiore, per la montagna, per la collina?
Si può tracciare, senz’altro, un confine tra un prima e un dopo. Però bisogna riconoscere che oggi si sta meglio di un tempo. Abbiamo l’acqua corrente che allora non c’era, abbiamo il riscaldamento centrale che allora non c’era. Si viveva tutti in una stanza sola.
Le luci di notte rendono le colline e i monti un presepe illuminato. I monti sono illuminati in ogni angolo, soprattutto d’estate, quando arrivano a riabitare le seconde case. Allora era diverso, si andava a piedi, non c’era il telefono. Era una civiltà completamente diversa.
La vita che facevamo una volta non sarebbe più accettata; oggi siamo entrati in un’altra fase. Una fase in cui tutti hanno il telefonino [ndr ride], io no.
Quello di allora era un mondo completamente diverso, ma si stava anche bene.
«Altri tempi e altre educatrici»: la scuola fa molto discutere, non solo negli ultimi mesi, ma anche negli ultimi anni. Cosa avrebbe potuto insegnarci il passato e non è stato recepito?
Del passato, la storia insegna poco. Nonostante sia una grande maestra, non ci sono orecchie per ascoltare. Questo passato ce lo siamo dimenticati. Anzi, alla maggior parte delle persone non interessa nemmeno il passato.
Dice: «Perché spesso pensiamo che la Grande Storia non ci riguardi affatto, e invece ne facciamo parte e ci avvolge e ci circonda come un guanto». Può fare un commento?
Io sono interessato a tutta la storia, in modo particolare a quella della mia valle. Mi piacciono le storie di re, di imperatori, di papi, però mi interessano molte anche l’uomo e la donna quotidiani, il modo in cui mangiavano, come si vestivano, come si comportavano. Perché la grande storia è fatta soprattutto delle piccole storie personali messe assieme.
La storia ci avvolge continuamente perché noi ne facciamo parte e il nostro vivere quotidiano crea la storia. La storia non è solo quella dei capi di stati, degli eserciti, ma anche di gente comune che vive e si dà da fare, nel senso che si muove, ama, vive, muore, si ammala, sta meglio. La gente di cui parlo in questo libro è appunto la gente che ha fatto in qualche modo la storia, che ha vissuto e ha lasciato il segno. È gente che in parte è scomparsa, ma che qualcuno ricorda ancora.
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Viviamo in un’epoca della commemorazione che ha poco a che fare con la memoria, con il ricordo reale. Come si può correggere questa inclinazione alla commemorazione, secondo lei, a favore di una memoria?
Non so come si possa correggere. So però che è importante ricordare, che si tenga viva la memoria delle cose accadute, che non devono essere tralasciate.
Guardavo qualche giorno fa la commemorazione di Sant’Anna di Stazzema, una delle stragi compiute dai nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale. È bene ricordarle perché non si ripetano più, perché non accadano più. Sebbene ci sia ancora gente che vorrebbe quasi rifare queste cose. Come dicevo prima, la Storia è importante, ma non insegna molto. Purtroppo.
Per quanto riguardano i prossimi progetti, può anticiparci qualcosa?
Sì, ho l’idea di scrivere qualcosa. Più precisamente, anni fa ho scritto un racconto, La cena. Vorrei scrivere un altro racconto, di spalla a questo. Ma è tutto prematuro. Non ho buttato giù una riga, per il momento.
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