Premio Campiello 2019 – Intervista a Francesco Pecoraro
Francesco Pecoraro, con Lo Stradone (edito da Ponte alle Grazie), conquista la cinquina del Premio Campiello, dopo essere riuscito a entrare in quella del Premio Strega nel 2014 con il suo primo romanzo, La vita in tempo di pace.
Siamo sempre nella Città di Dio e l’io narrante del nuovo romanzo di Pecoraro osserva ciò che accade lungo lo Stradone e l’umanità che attraversa questa porzione di città. Un’osservazione da cui è possibile trarre alcuni spunti di riflessione su alcuni dei quali abbiamo riflettuto con l’autore.
Comincerei da una domanda all’apparenza ovvia, ma in realtà ha dato adito a molte letture e interpretazioni, per cui penso che la soluzione migliore possa essere lasciar parlare lei: cosa rappresenta lo Stradone? Intendo: per chi ci vive, per chi lo osserva e per lei come scrittore?
Lo Stradone è un’arteria di scorrimento che attraversa un brano di città senza forma né contenuto, una pausa urbana priva di qualità, per decenni abbandonata a sé stessa, dopo la dissoluzione della comunità operaia insediatasi nella zona per via di una lunga vicenda industriale.
Il libro non è stato scritto con intenti metaforici. Mi sembrava troppo facile, troppo ovvio. E tuttavia in un minuscolo tassello di realtà è possible leggere alcuni tra gli elementi che caratterizzano il passaggio storico che stiamo vivendo.
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Nelle prime pagine, quando fornisce una descrizione a mo’ di elenco, appare una predilezione per ciò che è falso fino ad arrivare a «Falsa vita vissuta. Falsa esperienza, falso inconscio, falso immaginario, falsa coscienza.» È possibile ipotizzare un inizio di tutto questo? E quali sono i rischi verso i quali potrebbe condurci?
L’elenco vero/falso è la restituzione della confusione percettiva dell’io narrante del libro. Nella non-città circostante vede andare in crisi i concetti di realtà e verità. Non nel senso che non sappiamo più cosa è vero e cosa non lo è (nel contemporaneo questo problema esiste certamente, ma il libro non se ne occupa più di tanto), quanto piuttosto che la palese falsità, poniamo, della capigliatura tinta di rossiccio di un vecchio non ci infastidisce più di tanto. È un passaggio epocale, che può definirsi in tanti modi. Per il confuso protagonista del libro si tratta della fine della serietà borghese. I rischi sono sotto gli occhi di tutti.
Quale potrebbe essere una via d’uscita? Oppure perché ritiene che non possa esserci?
Stiamo vivendo un passaggio epocale progressivamente accelerato. L’accelerazione dei processi di trasformazione antropologica mentale fisica culturale sarà la caratteristica dei prossimi decenni. Non vedo alcuna via d’uscita che non sia locale e parziale, cioè provvisoriamente politica. Il fenomeno, come tutti sanno, è globale: ma le risposte invece che di apertura sono di chiusura, negazione della realtà. Auguri a tutti noi.
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Molti recensori nel leggere il romanzo hanno giustamente identificato la “Città di Dio” in cui si trova lo Stradone con Roma, eppure in tutto il libro la capitale non viene mai nominata. Perché la scelta di non usare la parola “Roma” (se non per indicare il luogo in cui è stato scritto l’epilogo) e per quale ragione ha optato per “Città di Dio” che rimanda inevitabilmente all’omonima opera di sant’Agostino e alle Storie della città di Dio di Pasolini?
Avevo usato questa denominazione anche nel mio precedente romanzo. Identificare la città del libro con Roma mi avrebbe costretto alla massima precisione, sia storica che topologica. Ho voluto lasciarmi qualche grado di libertà narrativa. “Città di Dio” per la precisione viene da un capitolo di Una vita violenta, di Pasolini, che si intitola Notte nella città di Dio e che mi colpì molto quando lo lessi da ragazzo. È un omaggio e un atto d’amore per quell libro che per me fu molto importante.
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Nella parte finale, l’io narrante parlando di sé dopo il prepensionamento ci racconta il fallimento dei suoi propositi di dedicarsi allo studio e alla scrittura e ci descrive il suo smarrirsi tra fiction e social con «un mare di amici, anzi di amiche, virtuali da coltivare tutti i giorni con like, belle foto e post spiritosi, possibilmente smart e colti, perché tengo solo ad amicizie selezionate, alle quali non rivelo la mia età, illudendomi che loro non la sospettino». In che misura questa è considerabile la condizione della maggior parte dei nostri contemporanei, indipendentemente dalla loro età?
Molte tra le persone che conosco fanno un uso molto moderato dei social, oppure non li usano affatto. Questo è vero anche tra i giovani, ma non so niente dei giovanissimi, che invece sembrano tutti persi nella contemplazione dello schermo del cellulare.
Come si sta preparando o si preparerà per la serata finale del Premio Campiello?
Ho mandato in lavanderia una vecchia giacca di lino nera.
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