Premio Campiello 2017 – Intervista ad Alessandra Sarchi
È con La notte ha la mia voce (Einaudi) che Alessandra Sarchi entra nella cinquina finalista del Premio Campiello 2017.
Il romanzo sembra prendere spunto dalla vicenda personale dell’autrice, rimasta disabile a seguito di un incidente. Eppure non tutto può ridursi alla semplice storia autobiografica sia perché presto se ne discosta sia perché Alessandra Sarchi fa di questo romanzo un modo per aprire piste di riflessione più ampie sull’identità, sull’accettazione di sé e su come riuscire a riprendere in mano se stessi in una condizione di disabilità con cui fare i conti all’improvviso e che arriva a creare una cesura forte nella nostra vita tra un prima e un dopo che, soprattutto all’inizio, sembrano inconciliabili.
E proprio di questi temi abbiamo parlato con Alessandra Sarchi nell’intervista che ci ha gentilmente concesso nell’ambito del nostro speciale dedicato al Premio Campiello.
«Sono inerme come può esserlo chi ha fiducia nella vita». Con queste parole l’io narrante descrive se stessa ritratta in una foto prima dell’incidente che l’ha vista coinvolta. Cosa vuol dire oggi per lei avere fiducia nella vita?
Davanti alla scrittura come davanti alla vita credo sia importante mantenere la capacità di farsi stupire e sorprendere. Aristotele diceva che lo stupore è necessario alla conoscenza ed è un elemento fondamentale della creazione. Per stupirsi bisogna dar credito alla vita: pensare che ci sia ancora, e sempre, qualcosa che non conosciamo, qualcosa che possiamo accogliere. Si tratta di una fede minima, ma necessaria e anche del tutto cieca. Fidarsi di ciò che si conosce è molto facile, mentre in genere non sappiamo cosa ci riserva il giorno dopo, così come non sappiamo esattamente dove ci porterà l’immaginazione creativa.
Sulla mia scrivania tengo da molti anni la foto di una Kore del museo dell’Acropoli di Atene: fotografata di profilo e con il viso semicoperto dall’imballaggio con cui la stanno trasportando nella nuova sede. Ho battezzato l’immagine di questa statua antichissima, imbragata per un nuovo viaggio, a occhi chiusi: blind faith.
Perché la fiducia è sempre cieca e ci richiede di essere inermi.
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La notte ha la mia voce racconta, tra le altre cose, una storia di convivenza e accettazione della disabilità. E in questo senso è stato definito anche un romanzo di formazione. Si ritrova in questa definizione? Quanto di tale percorso che l’io narrante racconta può essere effettivamente dicibile? Esiste cioè qualcosa che è rimasto fuori dalla narrazione?
Il romanzo di formazione prevede che ci sia un percorso evolutivo da parte dell’eroe-eroina, cosa che in parte accade nel mio romanzo. Tuttavia a smentire una parabola in ascesa ci sono altrettanti elementi: il fatto che io narrante e Donnagatto possano essere lette come le due facce dello stesso personaggio, quindi le sconfitte e i lati oscuri dell’una possano ribaltarsi sull’altra, senza che l’una possa essere definita più vincente dell’altra e che la meta sia una presa di parola, la capacità di dirsi, di avere una voce per raccontare l’indicibile.
Ho cercato di indagare la condizione di un corpo mancante, inteso in senso universale: a ognuno di noi può essere capitato di trovarsi ammalato, deprivato e limitato dalla propria condizione fisica, rendendosi conto che in tale condizione cambia molto la prospettiva sul mondo e la possibilità di interazione con se stessi e il prossimo. Non m’interessava parlare di disabilità come categoria sociale, in quanto per me significa poco. Ognuno conosce e vive in maniera specifica la propria, e le categorie non dicono quasi nulla dell’unicità delle persone e delle loro storie. La Donnagatto, ad esempio, è un personaggio che infrange di continuo i cliché della disabilità, comunemente intesa.
Quando penso a La notte ha la mia voce, a differenza dei miei precedenti romanzi, ho l’impressione che molto potrebbe ancora essere detto e che quindi il romanzo non abbia racchiuso tutto il dicibile, ma non la sento come una lacuna, al contrario come la vitalità di contenuti che sono ancora attivi e in fermento nella mia immaginazione.
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A proposito di Giovanna la Donnagatto, la spinta all’io narrante a riprendere in mano la propria vita viene grazie all’incontro con lei. Quanto può essere di aiuto la condivisione del dolore tra persone che affrontano lo stesso trauma?
La condivisione e il riconoscimento sono elementi molto importanti nella definizione dell’indentità individuale. Ci sentiamo quello che siamo, anche perché qualcun altro ci ha riconosciuto, ha visto in noi i propri dolori o le proprie gioie, in qualche misura dando loro diritto di cittadinanza.
Tuttavia vorrei sottolineare ancora una volta come non sia la comunanza di una condizione o di un trauma a unire le persone o farle entrare in dialogo; lo dimostra, ad esempio, il fatto che spesso una disgrazia o un dolore profondo separino i membri di una stessa famiglia, di una coppia.
Non è il dolore che unisce, semmai la consapevolezza che se ne matura, che sarà invariabilmente diversa per ciascuno, e in questo io vedo la ricchezza dell’essere umano, la sua potenzialità, il suo mistero.
Il libro si divide in tre parti che rimandano a tre dei quattro elementi archetipici della filosofia greca, la terra, l’aria e l’acqua. Perché la mancanza del fuoco come parte a sé stante nel corpo del romanzo?
Se vogliamo intendere la divisione delle tre parti del romanzo, terra, aria, acqua, come una proiezione cosmogonica il fuoco non è assente, bensì incarnato dal processo stesso della scrittura. Il fuoco è l’elemento della trasformazione e la scrittura opera proprio questo sul vissuto e sull’immaginazione: trasforma e rimodella. Oltre alla visione cosmogonica, la divisione per elementi segue una progressione narrativa: perdere l’uso delle gambe significa perdere il contatto con la terra; reinventarsi una condizione tramite un lavoro sull’immaginazione, propria e altrui, è lavorare con l’etere, l’aria che la voce attraversa; l’acqua è viceversa l’elemento del ritorno a una condizione di fluidità, di armonia, prossima al principio e alla fine. Tutto questo è reso possibile tramite, e dentro, la scrittura.
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Negli ultimi tempi, la disabilità è al centro dell’attenzione mediatica, pensiamo a Giusy Versace, Bebe Vio e Alex Zanardi. Quali sono, secondo lei, gli aspetti positivi di tale attenzione? E quali possono essere i rischi?
Credo che sia molto importante che esistano personaggi di grande visibilità pubblica che indossano la “disabilità” e la portano all’attenzione mediatica. Nonostante esistano buone leggi sull’abbattimento delle barriere architettoniche e il superamento della discriminazione sociale, il problema nel nostro paese rimane ancora di tipo culturale: davanti a una persona diversa, si adotta uno sguardo pietisco o si gira la testa da un’altra parte. Siamo dunque ben lontani dal riconoscimento di una parità di diritti.
D’altronde il fatto che s’impongano all’attenzione mediatica solo campioni disabili, dunque persone che hanno una vita di per sé eccezionale, ci rivela quanto sia ancora difficile accettare la disabilità come una delle tante condizioni in cui l’essere umano può trovarsi. Ai disabili sembra essere richiesto di essere dei super-eroi che col sorriso in faccia compiono imprese miracolose, dimenticando la quota di sofferenza che tale condizione per forza implica, e dimenticando che non tutti possono, riescono, o vogliono essere dei campioni sportivi, tantomeno dei “casi umani” da esibire in campagna elettorale o durante un talk show televisivo. Il messaggio che un campione disabile si trova a incarnare può essere dunque ambivalente, al di là delle sue intenzioni, beninteso, ma proprio per la distorsione mediatica: se ce l’ha fatta una persona disabile, allora ce la possono fare tutti, anche da disabili si può essere straordinari. Ma la realtà è ben più complessa, tra i disabili come tra i normodotati i campioni sono pochissimi, tutti gli altri vorrebbero semplicemnte avere una vita dignitosa, una vita possibile.
Vero è che la disabilità è diventata di moda, perché è un grande rimosso della nostra società, votata a ideali di performance continui, e come tutte le cose rimosse trova la propria maniera, più o meno congrua di riaffacciarsi all’immaginario collettivo. L’arte e la letteratura d’altra parte sono incaricate da sempre di indagare proprio nelle zone delle nostre grandi rimozioni individuali e collettive.
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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Campiello?
Il calendario degli incontri del Premio Campiello è molto fitto e cerco per il momento di guardare a ciascuna data, la serata finale mi sembra un traguardo al quale arrivare avendo fatto conoscenza degli altri finalisti e avendo condiviso la lettura dei libri con un pubblico sempre diverso. Immagino che sarà come la meta di un lungo viaggio: agognata e sorprendente.
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Per la prima foto, copyright: Jerry Kiesewetter.
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