Premio Campiello 2015 – Intervista a Paolo Colagrande
Una delle caratteristiche peculiari di Senti le rane (edito da Nottetempo) è la presenza di ampie digressioni, quasi ruscelli che vanno ad alimentare il letto del racconto principale. Fino a quale misura è possibile sostenere che la struttura del romanzo è stata pensata proprio per rappresentare la vita con il suo fluire solo apparentemente lineare?
Non c'è un progetto nella struttura del romanzo, credo che sia sempre la storia a suggerire ritmi, cadenze, voci, ma anche pause e parentesi, deviazioni e inciampi, e a segnare una strada. Scrivere oggi in forma narrativa è quasi impossibile, se si vuol fare a ogni costo un romanzo di taglio ed espressione diciamo tradizionali, con una voce che costruisce una trama, episodio su episodio, in sequenza coerente, senza mai spostare l'attenzione dai personaggi e dalla scena. Il mondo è ormai già tutto visto e conosciuto, esplorato nel particolare, misurato al millimetro, i narratori hanno già visitato tutti i possibili panorami, da un polo all'altro, nature benigne e nature maligne, mamme matrigne e babbi padroni; c'è un nome e una metafora per ogni gradazione di colore, odore, sapore e sentimento; forse c'è già un nome e un cognome per ogni faccia; le figure retoriche sono tutte certificate in semilavorati perfetti, e anche le parole sono in esaurimento. Il mondo, perché sia reso ancora visibile fuori dagli schemi dall'abitudine – e quindi perché sia meritevole di una storia – deve essere lasciato muovere per conto suo, senza narratori fuori campo a guidarlo e descriverlo, ma magari con una voce più tattile, soggettiva e stonata, un cantastorie irregolare che si presenta e si mischia nelle cose che racconta e che proprio per questo vale la pena di ascoltare, con tutti i suoi difetti. Non voglio essere dogmatico ma credo che nella pura fisicità, storta e dispersiva, del mondo e di chi ci abita, ci sia molta poesia.
La storia di Zuckermann può essere raccontata solo così. Le divagazioni diventano un punto naturale di stabilità: declinazioni del carattere o della mentalità di chi parla, e al tempo stesso pezzi avulsi che fanno capire meglio di chi e di che cosa si sta parlando.
«Il corpo umano, già in fase statica, è un impasto di sproporzioni e disarmonie. In fase dinamica poi, salvando qualche meccanismo secondario, il corpo umano è confuso: come se qualcosa dentro di lui continuasse a muoversi e protestare». Questa citazione, posta quasi all’inizio del libro, può essere considerata paradigmatica dell’intera vicenda narrata?
Direi di sì, anche se non c'è nessun intento didattico. Che il corpo umano sia un impianto viziato sia in fase statica che in fase dinamica è un dato evidente e scientificamente certo, e possiamo dire che questo difetto di fabbrica sia anche il più sicuro punto di appoggio, di applicazione (quello della famosa leva di Archimede), che sostituisce quello più fragile del modello vitruviano, dove l'uomo è in stima di perfezione e, per giunta, misura di tutto ciò che gli sta intorno. Eliminando una volta per tutte l'uomo vitruviano dalle nostre categorie e dai nostri programmi, ritroviamo l'energia dell'uomo normale, interessantissimo perché di energia ne ha poca, e si presta bene alle sue piccole storie. I personaggi di Senti le rane si muovono nella loro personale e insostituibile mediocrità: possono anche cadere nella tentazione di voler essere eroi ma non reggono il compito, perché è il loro corpo che si ribella e protesta.
Il racconto ha inizio con l’uscita di scena di Zuckermann, di cui Gerasim e Sogliani racconteranno la storia in sua assenza. Un modo per rinunciare alla presenza di un vero protagonista?
Una rinuncia che non mi costa niente: considero il protagonista un prodotto di sintesi, un malinteso letterario, distante da quel mondo fisico che dicevo prima. Zuckermann vorrebbe essere protagonista, perché nasce con l'investitura di santo, che in qualche modo recepisce e interiorizza, ma non ce la fa: la stessa stima di santo non è credibile per definizione, infatti si sbugiarda presto. E comunque ci sono sempre Gerasim e Sogliani a tenere il volo rasoterra. La strofa del canto ebraico, liberamente tradotta e messa in esergo, credo indichi la giusta unità di calcolo, che toglie autorità a qualunque aspirante protagonista: «Ma piantala di compatirti / gli dice il contadino / te l'han detto che sei un capro? / ce le hai le ali per volare / libero e sfacciato come una rondine?».
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La tesi di partenza della chiacchierata tra Gerasim e Sogliani è «che il male dorme nascosto negli esseri umani normali o anche virtuosi»: un ammonimento al lettore a guardare dentro di sé prima di esprimere un qualsiasi giudizio su Zuckermann?
È più una presa d'atto. Non c'è intento didattico. La conclusione che anticipa le premesse, seguendo un metodo cartesiano rovesciato, che a Gerasim e Sogliani riesce naturale. Che il male riposi anche negli animi eletti è ormai un dato d'esperienza, prima ancora che un dilemma sociologico. Poi chi ascolta, e legge la storia, è libero di giudicare Zuckermann come vuole: il giudicare liberamente, anche con una certa dose di arbitrio, rientra nel fair play del tavolo da trattoria, che non mette limiti deontologici al contraddittorio. C'è posto anche per moralismi radicali, purché espressi con sincerità: del resto Zuckermann è un prete che cade in tentazione subito, alla prima prova. Quindi deve aspettarselo.
Nel romanzo si parla spesso di malinconia. Cos’è la malinconia per Paolo Colagrande?
Una condizione di base: la pagina (o la tela o la quinta) da riempire con tutto quello che si può e che si trova. Dove la pagina resta bianca riaffiora la malinconia. Per questo non bisognerebbe mai lasciare spazi vuoti. Nel romanzo, Gerasim cita a modo suo i monaci anacoreti che, timorosi della loro condizione umana fisiologicamente incline alle tentazioni, si ritirano dal mondo, per vivere in verginale grazia di dio. Ma fuori dal mondo non trovano la grazia di dio, trovano la pagina bianca, che nel lessico cristiano diventa accidia, vuoto corruttore, quindi peccato mortale, più mortale delle tentazioni da cui si scappa. La malinconia è anche quel margine confuso e disgregato in cui l'antilope e lo gnu (cito sempre Gerasim) avvertono la presenza del giaguaro, in agguato da un punto che la paura non vede; ed è proprio in quello spazio incolore, stretto e rapidissimo, che il giaguaro intercetta lo spaesamento della preda, le salta addosso e la sbrana.
Una cosa del genere, fuori dalle metafore sgangherate dei narratori, succede a Zuckermann. E gli potrebbero far compagnia milioni di persone, quindi non parlo solo per me. Cosa sia veramente la malinconia, dove sia di preciso, perché ci sia e come si alimenti, non si sa. Ma è sempre nei paraggi
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015?
Credo che mi troverò a farmi questa domanda la vigilia, o la sera stessa, con il rimpianto di non averci pensato prima e di non essermi preparato. Tra poco però comincia un tour bellissimo: mi preparo a quello, cioè preparo le valigie. Sempre all'ultimo giorno e in ritardo, lo so già.
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