Premio Campiello 2014 – Intervista a Giorgio Falco
La gemella H (edito da Einaudi) è la storia della famiglia Hinner raccontata attraverso i ricordi di Hilde, la gemella del titolo. Quanto può essere doloroso il recupero della propria memoria familiare?
La memoria familiare è talmente dolorosa – e spesso così poco affidabile – che Hilde Hinner (la voce narrante principale, non l’unica) cede la parola anche agli altri personaggi: l’io di Hilde subisce naturali slittamenti di senso, diventa quello della sua gemella Helga o addirittura un noi, a volte un noi indefinito che sembra provenire dall’esterno, come se fosse il rimbombo di un altoparlante appeso al ramo di un albero. Hilde ha un rapporto ambiguo con la propria origine familiare e con l’origine dell’arricchimento economico della sua famiglia. Questa ambiguità influenza necessariamente anche la sua visione, la narrazione.
«Ogni famiglia rinchiude il passato dentro frasi significative» è una delle frasi di Hilde con cui si apre il viaggio nella sua memoria. Molti critici hanno citato Thomas Mann e I Buddenbrook: decadenza di una famiglia, ma ritornano in mente anche i giochi linguistici della Recherche di Proust o di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Possiamo dire che La gemella H rappresenta una sintesi tra le grandi narrazioni delle famiglie borghesi e quelli che si potrebbero definire come tentativi di genealogia dell’io, a partire dalla consapevolezza della propria fine?
La gemella H è una saga familiare sui generis. Hans e Helga accettano il tempo, ne hanno una concezione lineare. Ma Hilde è la voce narrante prevalente ed è solo Hilde che cerca di dare alla propria esistenza un valore davvero conoscitivo, qualcosa di più del semplice immergersi nel flusso degli eventi storici per trovare il proprio rifugio dal mondo. Hilde non riesce ad allontanarsi dalla famiglia, si sacrifica proprio per seguire, da dentro, la vita, e farne un’opera d’arte. Questa piccola tana esistenziale è il tempo stesso trasfigurato, che Hilde trasforma nella propria partitura, ed è la musica del romanzo, il presente continuo. La gemella H è, tra le tante cose, anche la coesistenza di queste due concezioni del tempo. È l’insistenza della vita. Il perpetuarsi quasi ottuso – ma così necessario – dell’esistenza: «La vita sopravvive all’amore che passa, la vita vince». Ed è l’abbattimento di ogni illusione di spazio e tempo, l’abbandonarsi all’arte, come fa Hilde. La gemella H può essere Hilde, l’artista, ma è altrettanto plausibile che possa essere Helga, colei che ha scelto la vita. Volevo raggiungere l’impossibilità a sciogliere questo nodo dopo più di 350 pagine.
C’è un avverbio che ritorna spesso in tutto il libro: prima. Damnatio memoriae o volontà di ricordare per assecondare un senso di liberazione?
Dentro “prima” c’è sia la volontà di ricordare, sia la voglia di dimenticare, il prima indicibile, quel che il resto della famiglia vuole dimenticare. E tuttavia il prima è anche la discrepanza tra la nascita di Helga e quella di Hilde. «Ho centottanta secondi di solitudine», dice Hilde. Il prima è il momento in cui Hilde indugia dentro sua madre ed è il momento grazie al quale diviene narratrice anche di ciò a cui non ha assistito direttamente. È un’esitazione decisiva, sorgiva. Centottanta secondi sono tre minuti, ovvero la durata media di una canzone, la durata – in molti processi produttivi del terziario – di ciò che è produttivo per un’azienda e di ciò che non lo è più.
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Secondo Andrea Cortellessa, lei ha avuto il merito e «il coraggio di far proprio il punto di vista della Zona Grigia» (il riferimento esplicito è a Primo Levi). Si riconosce in questo giudizio critico?
Sì, mi riconosco nel giudizio critico di Cortellessa. Mi interessa molto la “zona grigia”: è inevitabile la dinamica relazionale tra chi comanda – i quadri direttivi – e chi ubbidisce. Smarcarsi da tutto ciò sarebbe la rivoluzione: fatta non tanto da parte di chi subisce l’ordine, quanto di chi lo impartisce. Ma i primi a non essere pronti alla novità sarebbero proprio coloro che subiscono. La gemella H, più che il nazifascismo, racconta l’epica dei minori, e come certe dinamiche vengano riproposte dagli esseri umani in ambiti familiari o lavorativi. Del resto, già quando noi diciamo “mondo del lavoro”, stiamo assecondando l’idea che possa accadere anche qualcosa di terribile là dentro, in quanto, appunto, è un’enclave: ma il “mondo del lavoro” è pur sempre la vita. Hans Hinner, il padre delle gemelle, non è certo un criminale di guerra, non uccide nessuno, non si può nemmeno dire che aderisca al nazismo per una reale adesione ideologica (e forse sarebbe meno sgradevole se così fosse); è un piccolo opportunista, che usa il nazismo come scorciatoia per raggiungere il benessere. Quanti Hans Hinner esistono oggi incolonnati sulle tangenziali, in coda al check in degli aeroporti, disposti a compiere piccole atrocità quotidiane, pur di farcela? «La classe ibrida dei prigionieri-funzionari», direbbe Primo Levi. Anche i personaggi degli altri miei libri sono sempre immersi in ciò che Emanuele Trevi ha definito «orrore a bassa intensità». Piccole infamie quotidiane, che ci infliggiamo a vicenda, spesso senza nemmeno rendercene conto, così invisibili da passare del tutto inosservate. Non a caso una delle scene più significative e a bassa intensità del libro avviene nell’estate del 1951, durante uno spensieratissimo pomeriggio balneare, tra la totale inconsapevolezza dei turisti.
La narrazione si svolge, salvo brevi passaggi, al presente. Perché questa scelta? È un modo per sostenere che nello sforzo della memoria il “prima” e il “dopo” diventano “ora”, o c’è dell’altro?
La gemella H è scritto quasi tutto al tempo presente, a eccezione del refrain iniziale fiabesco («Noi mangiavamo le mele solo nello strudel, prima»). Ho voluto smarcarmi dal modo abituale con cui intendiamo la memoria. L’ho sradicata dal passato e innestata dentro un presente che non passa mai, che non ha mai la forza di diventare davvero soltanto passato, e questo presente asfissiante mostra in tal modo i suoi recessi.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014?
Forse, dopo diciassette anni, andrò dal parrucchiere. Ma non credo.
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