Premio Campiello 2014 – Intervista a Fausta Garavini
Ne Le vite di Monsù Desiderio (edito da Bompiani) ricostruisce la biografia di François de Nomé, non attraverso il ricorso a fonti storiche, tra l’altro molto scarne, ma basandosi sull’analisi stilistica delle sue opere. Lo stile di un artista può dire qualcosa della sua vita?
Certo, lo stile e soprattutto i soggetti possono dire qualcosa, anzi molto, soprattutto della vita interiore di un artista, e quindi un po' anche della sua biografia. Materia dell'invenzione artistica è sempre ciò che si vive, non solo il reale ma anche i sogni, i fantasmi, tutto ciò che si elabora nell'immaginazione a partire da quello che si vive nella realtà. L'arte autentica sta nell'ibridazione fra l'esperienza dell'artista e la sua interpretazione simbolica. Nel caso di François de Nomé, le sue rappresentazioni di catastrofi, di architetture crollanti, sono forse un riflesso dello spettacolo che potevano dare in quegli anni le città dove lui ha vissuto, Roma e Napoli: trasformate in cantieri permanenti, sospese fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, fra vestigia classiche devastate, monumenti gotici in via di ammodernamenti controriformistici, demolizioni per la costruzione di nuove fabbriche religiose. Ma queste immagini, che probabilmente rispecchiano una realtà, dicono che tutto è creato per essere distrutto, significano il dramma della condizione umana, parlano dell'inconsistenza delle pretese umane a durare, dell'eternizzazione rovinosa della storia dove non c'è misericordia né perdono. Quindi rivelano qualcosa della sua personalità, della sua visione del mondo.
Nella pagine iniziali del romanzo, parlando dell’arte di François de Nomé si chiede «Quale maledizione spreme quel pennello?». Se dovesse dare una risposta?
A partire dai suoi quadri, ho immaginato un temperamento saturnino, sensibile, incline alla malinconia e all'introversione, aspetti che vengono alimentati dalle esperienze che attraversa: un'infanzia difficile, e poi, a Roma e a Napoli, non solo le distruzioni, ma la consapevolezza del malgoverno pontificio e spagnolo, delle differenze sociali, del pervertimento dei costumi, e al tempo stesso dei fermenti magico-religiosi che sono nell'aria, delle ricerche di scienziati e filosofi che indagano i segreti della natura, s'interrogano sul destino umano. Le teorie di Bruno, di Campanella o di Della Porta filtrano dai circoli ristretti degli adepti e lasciano nell’aria scie di misteriosi vaticini. In questi fermenti François de Nomé cerca una risposta alla sua inquietudine, alla maledizione di non saper accettare la vita, di sentirsi straniero nel mondo.
Il nome di Monsù Desiderio rimanda a François de Nomé e a Didier Barra, spesso confusi tra loro, in un intreccio che, forse, contribuisce a far perdere le tracce del de Nomé. Raccontare la storia di queste vite nell’epoca dei social network e della costruzione di identità virtuali può essere un paradosso? Oppure, è un modo per mostrare le difficoltà del recupero della propria biografia?
Ricostruire impulsi e pensieri di uomini e donne vissuti in altri tempi era un paradosso anche prima dei social network, o piuttosto una scommessa. Ma questo lo sappiamo. La frase di Hartley «Il passato è un paese straniero dove le cose si fanno in un altro modo» è diventata proverbiale. Tuttavia ritengo che la scommessa si possa vincere: come diceva Anna Banti, congetturare sulla vita e la psicologia di persone del passato è «la chiave più sicura a intendere le leggi di una costante umana, riscontrabile in ogni tempo e in ogni paese». Non credo che i social network modifichino l'essere umano nel profondo. Del resto è una scommessa anche la ricostruzione della propria biografia: non possiamo ritrovare esattamente le cose che abbiamo vissuto, né il modo in cui le abbiamo vissute, e anche il nostro ricordo cambia a seconda dei momenti in cui lo rievochiamo. Sono questioni a cui penso da sempre e che intessono i miei romanzi, come Diletta Costanza (1996), In nome dell'Imperatore (2008), Diario delle solitudini (2011).
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Nel 2012, è stata pubblicata, sempre da Bompiani e con la sua curatela, una nuova edizione riveduta dei Saggi di Michel de Montaigne. Perché, ancora oggi, la lettura di Montaigne dona una sensazione di stringente attualità? Siamo noi a non essere cambiati, oppure la maledizione della storia è quella di ripetersi sempre?
Torniamo sempre al punto: l'uomo non cambia e la storia si ripete. Ma solo gli scritti di alcuni spiriti grandi ci danno la sensazione di una stringente attualità. Nel caso di Montaigne c'è il fatto che tratta argomenti scottanti, che all'epoca erano tabù, con una mentalità molto moderna: per esempio i roghi delle streghe, delle quali dice che sono donne malate che andrebbero curate e non bruciate; la relatività delle culture, quando sostiene con esempi che gli usi di alcuni popoli lontani e primitivi sono più ragionevoli dei nostri. Ma soprattutto Montaigne, con alcuni secoli di anticipo sulle ricerche della psicologia, sperimenta come la personalità sia un aggregato provvisorio, incomprensibile e affascinante, di soggetti istantanei, un mosaico di io che variano secondo le contingenze e le occasioni del discorso. C'è in lui un'assoluta sfiducia nell'identità personale come qualcosa di fisso. La sua è una scrittura della soggettività che non tende alla coagulazione dell'io, ma alla sperimentazione delle reazioni dell'io. Montaigne "si saggia", si mette alla prova (questo è il senso del titolo): quando racconta un aneddoto relativo a un personaggio storico o un fatto accaduto a qualcuno di sua conoscenza, lo fa per mettersi nei panni altrui, immaginandosi in situazioni diverse, chiedendosi implicitamente: "che cosa farei io, Michel de Montaigne, in circostanze analoghe?"; per cercar di vivere, attraverso gli altri, tutte le esperienze che non può vivere personalmente, per allargare la propria limitata esistenza reale nelle direzioni infinite delle esistenze possibili.
Dalla sua posizione di Professore Ordinario di Lingua e Letteratura francese ha avuto la possibilità di osservare l’evolversi della cultura umanistica nel mondo accademico italiano. Può dirci una sua impressione al riguardo? Ha notato qualche cambiamento in particolare?
Penso purtroppo che ci sia un degrado generale della cultura umanistica, che non può sussistere senza una conoscenza delle nostre origini, ossia della civiltà greca e latina di cui si erano nutrite finora le letterature europee. Il grande cambiamento nelle nostre università è avvenuto nel 1969, con la legge Ferrari-Aggradi, che ha aperto le porte di tutte le facoltà agli studenti provenienti da qualsiasi istituto quinquennale di istruzione secondaria. Prima di quella legge, entravano nelle Facoltà di Lettere solo gli studenti provenienti dal liceo classico, che avevano la formazione necessaria: greco, latino, letteratura, filosofia. Era un sistema elitario e non poteva rimanere tale, ma il cambiamento è stato gestito in maniera demenziale, o meglio non è stato gestito affatto. A partire dal 1969, geometri, ragionieri, periti industriali eccetera, cioè studenti che non si erano mai avvicinati alla cultura umanistica, sono stati ammessi nelle Facoltà di Lettere, senza che si creasse qualche passerella per aiutarli a entrare in un mondo che non era loro familiare. È impossibile leggere i Saggi di Montagne per qualcuno che non sa chi sia Plutarco, che cosa significhi pirronismo, insomma che ignori tutto della cultura classica di cui i Saggi sono imbevuti. Ma è impossibile anche leggere Proust o Valéry, per restare nell'ambito della letteratura francese. Il livello dei corsi universitari si è abbassato inevitabilmente, e le successive riforme hanno fatto il resto, adeguando il nostro sistema a criteri di mediocrità.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014?
Prepararmi come? Andare dal parrucchiere, comprarmi un vestito nuovo? Probabilmente dovrò farlo, non ho un guardaroba adatto... Per il resto, sono solo curiosa di vedere come andrà a finire.
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Commenti
Dice la prof.ssa Garavini: "È impossibile leggere i Saggi di Montaigne per qualcuno che non sa chi sia Plutarco, che cosa significhi pirronismo". Sinceramente dubito che aver frequentato il liceo possa aiutare più di tanto in tal senso, ché a sedici anni si ha la testa comunque altrove. Infatti neppure Montaigne imparò granché grazie alla formazione scolastica, essendo la sua sapienza frutto di studi e percorsi personali. Eppoi basta aprire una buona enciclopedia (e a riguardo ricordo che la Treccani è online, gratuita e per tutti) per colmare le lacune quanto basta ad avere il necessario inquadramento. Altrimenti per leggere i Saggi dovremmo conoscere a menadito pure Seneca (e lo stoicismo), Lucrezio (e l'epicureismo), Senofonte (e il "suo" Socrate) etc... In pratica è come dire "lasciate stare", con la conseguenza che si butta il bambino con l'acqua sporca. Per tacere del fatto che il Plutarco che Montaigne prediligeva era quello dei Moralia, i quali oggi praticamente non sono più stampati (c'è solo una silloge di 200 paginette che Einaudi vende a € 26!). Io invece dico: non conoscete tutta quella roba? Un motivo in più per leggere Montaigne! Flaubert, come emerge dalla sua corrispondenza, ha assorbito la morale stoica per il tramite di Montaigne, tanto per fare un esempio pratico. Con l'avvertenza, però, che Montaigne traeva quel che gli pareva dai suoi maestri e se ne appropriava in maniera originale; ma insomma, può essere uno stimolante punto di partenza.
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