"Piccolo paese", la guerra attraverso gli occhi di un bambino
Piccolo paese (Bompiani, 2017 – traduzione di Mara Dompé) è il felice debutto narrativo di Gaël Faye, musicista, rapper e autore franco-ruandese, che l'anno scorso in Francia ha ottenuto il Prix Goncourt des Licéens, assegnato dai giovani lettori, e il Prix du Roman Fnac.
Nato nel 1982 in Burundi da madre ruandese e padre francese, l'autore racconta in questo romanzo l'infanzia del suo alter ego Gabriel, un ragazzino che al principio degli anni Novanta vive un'infanzia apparentemente spensierata a Bujumbura, la capitale del Burundi. Nonostante l'incerta situazione politica, la vita nel vicolo dove si affacciano le case di Gabriel e dei suoi inseparabili amici scorre tra bagni nel fiume, scorpacciate di manghi razziati dai giardini, dispetti e rivalità, fino al momento in cui qualcuno inizia fare distinzioni fra i tutsi e gli hutu, i due gruppi etnici che compongono la popolazione del Burundi e del confinante Ruanda, da cui proviene la madre di Gabriel, di etnia tutsi, che anni prima ha preferito lasciare il paese natale.
La guerra scoppia improvvisamente, e nel giro di pochi mesi il Ruanda diventa teatro di uno dei peggiori genocidi del ventesimo secolo, quando centinaia di migliaia di tutsi sono massacrati dagli hutu. Nel Burundi, dove invece la maggioranza è tutsi, si scatenano feroci rappresaglie: la guerra civile obbliga Gabriel a fuggire in Francia, abbandonando la Bujumbura felice dell'infanzia, dove potrà fare ritorno solo molti anni dopo, ormai adulto, alla ricerca delle proprie radici africane.
Nonostante rievochi un massacro di cui in Europa non si è forse percepita, in quegli anni, la reale portata, Piccolo paese non è tanto un romanzo sulla guerra, quanto sull'infanzia, e soprattutto su un passaggio all'età adulta che viene imposto troppo bruscamente al protagonista, costretto a prendere coscienza in modo brutale delle proprie origini: da un giorno all'altro, tutsi e hutu cessano di essere due nomi privi d'importanza per diventare marchi che possono determinare la morte o la sopravvivenza di un individuo, mentre parentele e amicizie vengono cancellate da improvvise vampate d'odio.
Gaël Faye ha presentato il suo romanzo a Milano, nel corso di un incontro alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte dove oltre a parlarci di Piccolo paese ci ha fatto ascoltare le sue canzoni, brani rap intrisi di nostalgia, e che raccontano soprattutto le contraddizioni di chi porta in sé doppie radici.
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Lei è autore di canzoni prima che romanziere. Come ha trovato un equilibrio tra questi due mondi?
In pratica, ho dovuto disimparare a scrivere nel modo precedente, perché in una canzone ci sono rime e ritmi, che diventano indigesti in una storia. Dovevo trovare un equilibrio, senza però cancellare la poesia del racconto. Alla fine, un romanzo dev'essere come una lunga canzone, da cui far emergere una melodia: ne ho trovate tante leggendo gli scrittori.
Cosa l'ha spinta a scrivere questo romanzo?
Prima di tutto, il desiderio di resuscitare un mondo perduto, che ho cercato anche di riabilitare. C'è un vuoto assoluto sulla storia del Burundi e sulla vita passata di Bujumbura, che esiste solo nei ricordi di chi c'era. Scrivere significa collocare delle parole nel silenzio del mondo, ma il dramma africano sta nel fatto che si parla di questo continente solo in caso di guerra.
I giovani scrittori africani dovrebbero parlare della loro vita quotidiana, senza aspettare di avere un ennesimo dramma da raccontare, anche perché la nostra è sempre stata una cultura essenzialmente orale, di storie tramandate anziché fissate nella forma scritta. Un mio zio burundese non concepisce che io stia lavorando nel momento in cui scrivo un libro, e mi ha detto "ma perché racconti cose che la gente conosce già?", al che gli ho risposto "tu le sai già, ma è il mondo che non le sa". Lo zio ha impiegato un po' a capire questo, ma poi mi ha chiesto di scrivere la sua biografia, perché è tipico dei burundesi credersi al centro del mondo.
Il fatto di aver scritto un romanzo cambierà il suo rapporto con la scrittura?
In realtà ho sempre avuto la passione per la scrittura: ho cominciato con delle poesie che poi sono diventate canzoni, perché a Parigi frequentavo un centro culturale dove organizzavano laboratori di rap. In seguito ho scritto anche per il teatro. Per me la letteratura era qualcosa di sacro, poi ho capito che era una possibilità aperta a tutti coloro che possiedono una voce interiore, e io amo narrare il mondo.
Ho incontrato un'editrice che mi ha spinto a raccontare la mia esperienza, e oggi considero il successo di questo libro come un grande incoraggiamento.
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Qual è il suo rapporto con la sua doppia origine?
Quand'ero bambino, i miei genitori mi ripetevano che io ero "cinquanta e cinquanta", cioè metà francese e metà africano, e questo mi faceva sentire una specie di biscotto Oreo, quelli al cioccolato con la crema in mezzo... Avevo difficoltà a capire le idee e l'educazione che mi davano i miei genitori. Adesso penso di assomigliare a un fiume, in cui si uniscono due affluenti: il prodotto di una fusione e non di un’addizione. Ognuno di noi, in fondo, è sempre il risultato di una fusione.
Ho studiato in una scuola francese, e la cultura ruandese mi è stata trasmessa in un modo spesso violento, attraverso la sua storia dolorosa. Del resto, mia madre non voleva nemmeno che imparassimo la sua lingua materna perché voleva fare di noi dei francesi a tutti gli effetti, e considerava la cultura africana inferiore a quella francese.
La sua famiglia ha vissuto le stesse tragedie di quella di Gabriel nel romanzo?
No, il personaggio mi somiglia più che altro nelle sensazioni che prova, ma le peripezie descritte sono frutto della fantasia, anche se purtroppo ricalcano esperienze vissute da tanti ruandesi e burundesi.
È stato difficile ricostruirsi un'esistenza in Francia?
Sì, soprattutto perché avevo la sensazione che la Francia non fosse accogliente nei nostri confronti. I francesi volevano che io dimenticassi il mio passato per diventare un ragazzo differente. La scrittura, per fortuna, mi ha permesso di affermarmi e di vincere la violenza che sentivo dentro di me da adolescente, e mi ha anche fatto accettare dai francesi.
Quindi la scrittura è stato uno strumento d'integrazione?
Senz'altro. In Francia esiste il fantasma dell'integrazione, che in realtà per i francesi diventa assimilazione. Devi rinnegare quello che sei stato per diventare completamente francese: questo mi disturba, perché penso che l'apporto delle culture differenti sia sempre un arricchimento.
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Come mai dopo tanti anni trascorsi in Francia è tornato a vivere in Africa?
Sono stato per qualche anno anche a Londra, dove ho lavorato per un po' come consulente finanziario grazie ai miei studi di economia, ma da poco ho scelto di andare a vivere in Ruanda, il paese di mia madre. Per molto tempo l'ho considerato solo il luogo del genocidio e della sofferenza, ma in questo paese la vita è ripresa e io faccio una vita banale, porto i figli a scuola, vado dal meccanico, faccio la spesa perché voglio partecipare a questa rinascita del quotidiano e delle piccole cose. In Burundi non potevo tornare, perché lì adesso la situazione politica è molto incerta e pericolosa.
Io comunque appartengo a tutti: nelle mie canzoni ho creato "Afrance", un paese immaginario che unisce Francia, Burundi e Ruanda.
Lei che è cresciuto in una situazione di guerra civile, come ha vissuto gli attentati in Francia? La paura ha sempre la stessa voce?
Sì, quando la violenza diventa la norma, ma questo per fortuna in Francia non è accaduto: se ci fossero attentati ogni giorno torneremmo alla nostra paura di quando eravamo piccoli. Per noi bambini era difficile vedere i morti per strada e continuare la nostra solita vita, eppure le cose andavano avanti lo stesso. Solo dopo che mi sono trasferito in Francia mi sono reso conto di aver convissuto a lungo con la paura.
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Come ha conquistato il distacco per scrivere?
Tengo al pudore nella scrittura, ma soprattutto non penso si debba aggiungere violenza alla violenza, altrimenti un lettore è portato a rifiutare un libro troppo forte: ci sono autori che hanno scritto libri pieni di orrore, eppure non si sono mai confrontati realmente con la violenza, mentre io che l'ho vissuta preferisco scrivere di pudore e di poesia.
Scriverà altri romanzi?
Sicuramente, perché sono stato stimolato dal successo di Piccolo paese. Sto scrivendo un altro libro che però si svolge da tutt'altra parte, perché non voglio essere etichettato come autore "africano" o "sradicato".
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