“Perché tu non ti perda nel quartiere”, Patrick Modiano e i segnali luminosi
Perché tu non ti perda nel quartiere (edito da Einaudi nella traduzione di I. Babboni) è il premuroso mantra del nuovo romanzo di Patrick Modiano, premio Nobel 2014 per la letteratura. Stendhal lamenta, dall’epigrafe, di non poter restituire la realtà dei fatti, ma di poterne però «presentare l’ombra»; ed è una storia di ombre e fantasmi quella di Jean Daragane, anziano scrittore in una Parigi disillusa, che un giorno riceve una telefonata inaspettata e avverte «come una puntura d’insetto che all’inizio ti sembra molto lieve». Gilles Ottolini ha ritrovato un taccuino smarrito, ma quando Daragane accetta d’incontrarlo perché gli venga restituito, Ottolini si dimostra particolarmente interessato a un nome appuntato anni prima tra quelle pagine: Guy Torstel. Si innesca una giostra di telefonate, messaggi e intrusioni da parte del giovane e di
Joséphine Chantal Grippay (ma perché, poi, avrà cambiato nome?), la quale rivela a Daragane le vere intenzioni del suo compagno: Ottolini sta cercando informazioni per scrivere sull’irrisolto omicidio di una donna, un delitto avvenuto sessant’anni prima, e crede di poterle ottenere proprio dal vecchio scrittore. Chantal consegna a Daragane un dossier di appunti disordinati, e tra le pagine emerge la foto di un bambino.
La puntura d’insetto che all’inizio sembrava molto lieve, allora, diventa insopportabile. Tra le righe fitte di quelle pagine sottili, Daragane si trova «all’improvviso di fronte ad alcuni dettagli della propria vita, ma riflessi in uno specchio deformante»; individua un nome e lo cerchia di rosso: Annie Astrand. Dalla spirale di «dettagli incoerenti che ti perseguitano nelle notti di febbre» affiorano un profilo, un corpo affusolato, ora il suono di una voce, il motore di una macchina che si spegne nel vialetto, le risate notturne nella stanza adiacente, un bambino fermo in posa per fare una foto e che chiude gli occhi infastidito dal flash. Il prurito è ormai incontrollabile, Jean Daragane riconosce il bambino della foto e ripercorre i luoghi della sua infanzia come in un’allucinazione, annullando la cronologia interna e sistemando gli eventi passati, presenti e futuri della sua vita davanti a sé, recando pari dignità a ogni momento della narrazione, confondendo l’attimo attuale con l’azione vissuta, relegando gli avvenimenti del presente nella dimensione di meri flashforward occasionali che alimentano il vero nodo della storia: le vicende del passato, la ricerca del tempo perduto che non fatica a farsi trovare ma, ancora una volta e definitivamente, nega una spiegazione.
Il grande serbatoio di una narrativa che si declina come auscultazione di se stesso è l’infanzia, quella di Patrick Modiano cresciuto con due insolite, evanescenti figure genitoriali e spesso affidato a uomini e donne sconosciuti, personaggi di cui oggi ricorda solo nomi o aneddoti stentati, che disperatamente rincorre e analizza nei suoi romanzi, perché «quei nomi senza importanza che hai sentito in gioventù sono destinati a tornare, come un ritornello o una balbuzie, molti anni dopo». L’anziano scrittore protagonista di Perché tu non ti perda nel quartiere aveva scritto il suo primo libro inserendovi dentro immagini della sua opaca infanzia trascorsa lontano dai genitori; «per lui», infatti, «scrivere un libro voleva anche dire lanciare segnali luminosi o Morse all’indirizzo di persone di cui non sapeva più niente». E, come il suo protagonista, così fa Modiano, che nel discorso tenuto il 7 dicembre 2014 all’Accademia di Svezia ha spiegato come gli episodi della sua infanzia siano diventati più tardi matrice per i suoi libri.
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La filosofia esistenzialista, l’autobiografismo ossessivo e la sagoma inquietante della Parigi dell’Occupazione vegliano sull’enigmatico protagonista di un romanzo inserito in un circuito ormai familiare a Modiano, che ha osservato come «gli stessi visi, gli stessi nomi, gli stessi luoghi, le stesse frasi ritornano da un libro all’altro, come i motivi di una tappezzeria tessuta nel dormiveglia».
Insignito già del prestigioso Premio Goncourt (1978), in un’intervista uscita su «Repubblica» Modiano confessa di aver provato una certa apprensione, dopo il Nobel: «l'unica cosa che mi preoccupava era che non sarei più riuscito a scrivere»; per fortuna, continua, non è successo: «ho continuato a sentire un’insoddisfazione». Scrivere come unica alternativa al disagio, scrivere per lanciare segnali luminosi, allora. Purtroppo, però, Modiano riconosce un cambiamento epocale, una mutazione antropologica che rende impossibile il recupero del tempo perduto: se Proust riesce a «far riemergere il passato nei minimi dettagli, come un quadro vivente», questo non è più possibile oggi, perché si ha la sensazione «che la memoria sia molto meno sicura di se stessa e che debba continuamente lottare contro l’amnesia e l’oblio». Allora il passato ritorna, ma a modo suo mutato; attraversa le trame e le pagine dei romanzi di Modiano e, finalmente domato, non mostra che «tracce interrotte, destini umani sfuggenti e quasi inafferabili». Tra la fatica del ricordo e l’esattezza della non-fiction (esperita, per esempio, nel romanzo autobiografico Un pedigree), si disegna una cartina di luoghi, personaggi, storie che ci sembra di aver già incontrato, forse, o forse no.
L’ultimo romanzo del Nobel francese, con una prosa sobria, essenziale e compiuta, presenta la storia di un’epifania che non risponde agli interrogativi dei personaggi; la storia di un anziano scrittore e della sua coperta di solitudine improvvisamente volata via; la storia dei romanzi scritti per lanciare segnali luminosi, per ricercare il tempo perduto, trovarlo, riabilitarlo, comprenderlo. Scrivere e farlo Perché tu non ti perda nel quartiere, né Patrick Modiano, né qualcun altro.
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