Paura della morte e desiderio dell’eternità in “Zero K” di Don DeLillo
Puntata n. 5 della rubrica La bellezza nascosta
«Sì. Un giorno sarà possibile neutralizzare le circostanze che conducono alla fine. La mente e il corpo verranno risanati, riportati in vita.»
La fine della vita umana è sempre stato il grande enigma che l’uomo si è trascinato e continuerà a trascinarsi, senza probabilmente, riuscire a trovare delle risposte esaustive. A seconda del proprio credo religioso e del proprio ateismo, ognuno vede e prova a immaginare la morte a suo modo; per qualcuno è il temine ultimo, per altri un nuovo inizio. Indiscutibile però è il fatto che morire sia la più grande e primitiva paura dell’uomo. Ognuno si prepara al termine ultimo provando a seguire i propri dogmi, ma cosa accadrebbe se ci fosse la possibilità di mettere in pausa un corpo affetto da una grave malattia, per farlo camminare in avanti, nel futuro, e farlo arrivare in un punto imprecisato del domani, dove quella malattia potrebbe essere risolta?
Nella vita di un essere umano, ci sono varie fasi e varie situazioni dove ci si ritrova a fare i conti con la mortalità del corpo, e i primi incontri con la fine della vita ci si trova a farli con le persone care che muoiono intorno a noi durante la nostra infanzia o durante la fase adolescenziale.
E lì sorgono poi i primi interrogativi: c’è Dio? Esiste qualcosa dopo l’ultimo respiro? Se Dio non c’è, che significato ha la vita? Qual è il senso della morte?
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Don DeLillo è nato nel 1936 a New York, nel Bronx.
È uno dei più importanti autori contemporanei nel panorama letterario. Zero K è stato pubblicato in Italia da Einaudi (2016) e la traduzione è stata affidata a Federica Aceto.
Ci troviamo nel deserto del Kazakhistan, Jeffrey Lockhart è un giovane uomo che attraverso un viaggio, per il quale non conosce la precisa destinazione, raggiunge il padre Ross: un potente uomo della finanza, sessant’anni e una moglie malata e più giovane di nome Artis Martineau. Ross è uno degli uomini che ha finanziato un progetto che prende il nome di Convergence, è un luogo, questo, dove attraverso delle ricerche sono riusciti a ibernare dei corpi mantenendone inalterata la coscienza, per poterli poi “liberare” in un futuro in cui le cure per le malattie mortali siano diventate realtà. E uno dei pazienti che si appresta a compiere il viaggio è proprio Artis, affetta da una grave malattia. Così Jeffrey viene invitato dal padre a raggiungerlo in un deserto sconfinato, all’interno di una struttura futuristica e asettica. Per quello che sembra un viaggio di addio. Iniziano così i dubbi di Jeffrey, che si ritrova davanti un padre “diverso” e, mentre si inserisce nel contesto di vita degli abitanti di Convergence, si rende conto di quanto il tutto somigli a una specie di setta religiosa, e la paura che il padre possa essere stato vittima di un lavaggio del cervello lo spinge a indagare su una realtà ignota.
Inizia così il personale percorso di Jeffrey, interno ed esterno, dove torneranno a galla i rapporti con il padre, le sue difficoltà di vita per essere stato costretto a vivere senza la figura paterna, la sua infanzia difficoltosa; e sorgeranno poi, con il passare delle pagine, le sue incertezze profonde, le sue inquietudini. E si domanderà se il padre, uomo sempre ricco e potente, che sin da bambino ha visto come una figura estranea, creda davvero che il denaro possa essere una soluzione anche per la morte.
«Tutti vogliono possedere la fine del mondo.»
È questo l’incipit con cui DeLillo ci porta all’interno del romanzo.
«Tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune vostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo, è vero, mantiene le promesse.»
Questa è una delle prime frasi con cui Ross prova a spiegare al figlio il progetto che stanno mettendo in cantiere.
La lingua di DonDelillo è potente, la sua scrittura è “ossea”, non ci sono sbavature, non esiste nulla, in ogni singola frase, che sia in più o in meno. Ci trascina in questo incubo lucido con la maestria che possiedono solamente i grandi narratori, mettendoci davanti, lettera dopo lettera, all’incombente e ingombrante arrivo del futuro; ci parla con tono freddo e distaccato, di una battaglia antica come il mondo, quella tra religione e progresso, facendoci immergere in ambienti claustrofobici, e dialoghi tristi e disarmanti.
«E poi chiudo gli occhi. È una sorta di resa al buio? Non lo so. È una forma di adattamento? Lasciare che sia il buio a stabilire i termini della situazione? Cos’è? Forse una di quelle cose strane che fanno i bambini. Il bambino che sono stato un tempo. Solo che continuo a farlo. Entro in una stanza vuota e aspetto qualche secondo sulla soglia e poi chiudo gli occhi. Voglio forse mettermi alla prova raddoppiando il buio?»
Don DeLillo, con una poetica decisa e in molti casi atavica, scava nelle paure dell’uomo, portandoci a toccare con mano la vita e la morte, le contraddizioni dell’esistenza e le guerre ideologiche di un mondo che spesso si boicotta da sé.
Zero k è un romanzo che non lascia spazio a fraintendimenti o a indecisioni; ogni stanza, ogni luogo, ogni personaggio, è al contempo pieno della forza vitale che regala la nascita e colmo della debolezza e del vuoto in cui prima o poi ci proietterà la fine dei nostri giorni.
«Era già da un po’ che facevo questa cosa: cercare di definire la parola che designava oggetti o anche concetti. Definisci “lealtà”, definisci “verità”. Fui costretto a smettere perché la cosa rischiava di uccidermi.»
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Se la sconfitta della morte rappresenta per l’umanità il sogno proibito, l’accettazione che ogni cosa possegga dentro di sé un inizio e una fine è forse la base per poter trovare e dare un senso alla nostra esistenza privata. E ancora il pensiero della morte verrà a farci visita ogni giorno, mentre distratti staremmo aspettando che sia pronto il pranzo, o prima di dormire; e come una carezza, l’immaginazione, ci farà credere che un giorno, qualcuno o qualcosa, potrà renderci eterni.
Ma poi, in fin dei conti, il “per sempre” ci sceglie attraverso strade e giochi che nemmeno avremmo potuto immaginare.
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