«Non è la Palestina a essere occupata, la Palestina ci occupa». Un incontro con Suad Amiry
Alcuni romanzi hanno la capacità di restarti dentro a lungo, specie perché, con la loro storia, riescono a ribaltare certe tue convinzioni o conoscenze su una determinata materia. Di Palestina si parla poco, anzi, i conflitti che i palestinesi vivono tutti i giorni fanno parte di una sorta di rumore di fondo della nostra esistenza occidentale. È tutto lontano, fumoso, quasi irreale.
Storia di un abito inglese e una mucca ebrea di Suad Amiry spezza questo incantesimo e rende l’attualità un mondo reale, fatto di esseri umani, di sentimenti, di vita.
Tradotto in italiano da Sonia Folin e pubblicato da Mondadori, il romanzo di Suad Amiry è dolore, gioia, spensieratezza, ironia e speranza allo stesso tempo.
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Di recente, assieme ad altri blogger, abbiamo avuto l’occasione di capire di più sul mondo in cui è nato il romanzo, su cosa possa fare uno scrittore per smuovere le coscienze e altro ancora. Ci separavano chilometri di distanza, ma ci avvicinavano gli schermi e soprattutto la straordinaria energia dell’autrice che ha raccontato quanto questo romanzo rispecchiasse l’esigenza personale di affrontare la storia della propria famiglia.
Architetto, attivista politica e scrittrice, Suad Amiry pensava da tanto tempo di dedicare un libro a Giaffa e agli eventi che hanno portato alla nascita dello Stato di Israele. C’era troppo dolore, a parlarne. Procrastinava. Infatti, nel momento in cui si è recata a Giaffa per raccogliere materiale aveva sentito un profondo smarrimento. In taxi, si sentiva frustrata, parlava con chi l’accompagnava di quanto trovasse difficile scavare in se stessa, senza nessuno scudo.
È lì che è nata la storia di Subhi e Shams, nel taxi. L’autista le offre la storia di cui aveva bisogno, quella di sua zia, Shams. Certo, molti dettagli sono stati aggiunti da Suad Amiry, alcuni con l’intenzione di strappare un sorriso al lettore, altri per poter raccontare, appunto, la Storia del suo popolo, i soprusi, il dolore che si era annidato in quell’abbandono forzato delle proprie abitazioni, della propria esistenza.
Dicevamo, Suad Amiry non è solo una scrittrice, alla scrittura si dedica più tardi. Di professione, è architetto. Cosa comporta, quindi, scrivere da architetto? Comporta, spiega l’autrice, che «nei miei romanzi ci sono molti elementi di architettura. Ma non solo, il modo stesso con cui mi approccio alla scrittura è quello dell’architetto. Infatti, quando penso a un nuovo libro, faccio anche degli schizzi a mano».
Sono molte le cose che colpiscono nella lettura del romanzo, una di queste è sicuramente la violenza, la cattiveria con cui gli ebrei si accaniscono contro gli arabi. Siamo nel 1947. L’Olocausto è più che un ricordo recente. Com’è stato possibile? Suad Amiry diventa seria e spiega che «un bambino abusato diventa un adulto che abusa. Non conoscono un altro modo per reagire e interagire. Tuttavia, molti ebrei arabi non avevano vissuto l’Olocausto. Israele era una colonia. E le colonie nascono secondo la logica del più forte che merita più risorse, che ha più diritti. Israele non vede più il popolo palestinese come esseri umani».
Cosa può fare uno scrittore, a questo punto? «All’inizio credevo che potesse fare poco, ma l’esperienza mi ha dimostrato che invece può fare moltissimo. Un libro può raggiungere tantissime persone. Non credevo fosse questo il mio destino, cioè fare la scrittrice. Sono dislessica, di conseguenza, come tutti i dislessici, ho affinato altre abilità, come l’ascolto o la parte visiva. Inoltre, nella mia vita, ho partecipato a importanti negoziati, proprio come frutto del mio impegno politico. Non pensavo di scrivere un libro, finché poi non è successo. Il mondo è pieno di conflitti, le persone non possono appassionarsi a tutti, comprenderli tutti, seguirli tutti, nemmeno chi è interessato alla politica. Tutti, però, amano leggere un buon libro, ascoltare una buona musica, guardare un’opera d’arte. L’arte, quindi, non solo la letteratura, può fare moltissimo, è un’arma molto potente».
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Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea mette in evidenza il fatto che i bambini non vengono risparmiati con storielle. Sanno la verità. Quando la politica diventa un argomento da affrontare con i bambini in Palestina? «Si parla spesso di politica nelle nostre case. In una famiglia puoi trovare esponenti di tutte le fazioni. I bambini vengono coinvolti da sempre. In quanto palestinese, sei ostaggio della politica; infatti, a volte, vorrei non essere palestinese per un’ora. Non è la Palestina a essere occupata, la Palestina ci occupa».
Per la prima foto, copyright: Ahmed Abu Hameeda su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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