Nella vita di un trentenne disoccupato. Intervista ad Alessio Forgione
Siamo a Napoli, di sera, ma anche di mattino, qualche volta, e di notte, il più delle volte. Spesso nemmeno in mezzo a una via, ma dentro i sentimenti, i pensieri, le sensazioni, le paure, i tormenti, le domande e le risposte di Amoresano, un trentenne disoccupato sebbene non gli manchino studi universitari, un lavoro – e relativa carriera e capacità di parlare più di una lingua straniera – e anche la voglia di cercare un nuovo impiego.
Nella sua essenza, Napoli mon amour di Alessio Forgione, edito da NN Edizioni, è un romanzo di formazione, un viaggio dentro se stessi guidati da alcune guide, come l’amico, Russo, o la ragazza, Lola, per iniziare.
In occasione dell’uscita di Napoli mon amour, Alessio Forgione racconta qualche dettaglio che si cela dietro la nascita del romanzo.
Com’è nata l’idea del romanzo?
In maniera fortuita. Letteralmente, mi è venuta una mattina, a letto, appena sveglio. Mi sono riaddormentato e quando mi sono risvegliato non ricordavo di averla avuta. A pranzo, sedutomi a tavola, è tornata a galla e quindi, a quel punto, me la sono scritta da qualche parte.
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Nonostante le due lauree, l’essere poliglotta, l’avere maturato esperienza lavorativa all’estero, Amoresano, il protagonista trentenne, non riesce a trovare il suo spazio a Napoli, ovvero un lavoro, una certa normalità, se vogliamo. Perché?
Cause esterne: il mondo in cui è inserito, non proprio propenso a fargli posto. Cause interne: la costante ricerca di qualcosa che non ha nome; la voglia e l’esigenza di non accontentarsi, ma di provare a fare qualcosa di reale; la necessità, intima, di non sminuirsi.
A tratti, Amoresano sembra un’anima strappata a un altro mondo, non ci sta bene là dov’è, almeno finché nella sua esistenza non appare una ragazza. Cosa rappresenta per il protagonista questo incontro casuale, inatteso e, in un certo qual modo, nemmeno ricercato?
Credo gli sia sembrato un inno alla vita, forte e vivace e bello, che poi, giorno dopo giorno, si è trasformato in un requiem triste, doloroso e severo. D’altronde, l’amore è così: esalta quando nasce e poi, a volte, tira giù.
I rapporti moderni appaiono fallaci agli occhi di Amoresano, ovvero non possono funzionare. Secondo lei, l’amore, la coppia, in che misura si fonda sul sacrificio?
Soprattutto in un mondo come quello attuale, dove milioni di esperienze, più o meno utili, più o meno edificanti, più o meno semplici d’attuare, sono a portata di mano di quasi tutti, credo che lo stare insieme implichi una rinuncia, una riduzione del proprio orizzonte personale che si trasforma in due orizzonti un po’ più piccoli di quanto potrebbero essere se fossero assolutamente individuali e solitari ma che sono due anziché uno e quindi, complessivamente, più grandi e più ricchi. E forse sarà pure un sacrificio, ma credo che non dovrebbe essere vissuto come tale. Più che una rinuncia è una scommessa, credo.
Serve coraggio sia per partire sia per tornare, coglie stralci di dialogo il protagonista a un certo punto. A lui, però, ad Amoresano, cosa manca per spezzare le catene dell’inerzia?
L’imbarazzo, mi sembra. L’imbarazzo conseguente al sentirsi speciale ma non abbastanza, di non sentirsi incluso, di sentirsi rifiutato, di sentirsi martellato dagli eventi, di far parte di una realtà ch’è, quanto lui, se non più di lui, immobile.
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«Lo stare assieme è soprattutto il raccontarsi i momenti in cui non si è stati insieme». Può commentare questo pensiero del protagonista?
Le persone che stanno assieme sono costrette a passare tanto tempo distanti, spesso più di quanto ne passino assieme. Forse intendeva questo.
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Per la prima foto, copyright: Ammar Rizwan.
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