Nella fabbrica della carne. Intervista a Maria Rosa Cutrufelli
Certe volte, può capitare che il libro giusto arrivi al momento giusto e, dopo il primo momento di forte impatto in cui magari è legittimo restarne perturbati, si può seguire la storia come fecero Hansel e Gretel con i sassolini illuminati dalla luce della luna. Infatti, è profetico il romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri, pubblicato da Mondadori. Illumina quell’angolo di mondo, le madri, che diventano la rete perché il tutto non crolli definitivamente.
La storia la racconta una figlia. È la figlia di tante madri: della mamma uovo, della mamma canguro, della mamma giardiniera. Perché la cosa più preziosa del futuro che Cutrufelli racconta sono i figli. I grembi delle donne sono sterili, e così gli uomini, avere figli è di vitale importanza per la sopravvivenza della stessa specie.
Un mondo dispotico? In un certo senso, sì. L’isola delle madri ci racconta un universo futuro che si spera resti irrealizzabile. Eppure, ha qualcosa di già visto, già vissuto, già sentito. Infatti, dice «quando mai i bambini sono nati senza interferenze, così come viene? I governi, le chiese, c’è sempre qualcuno a dettare le regole… E l’aborto sì e l’aborto no, e se fai figli, bravo! ti diamo lo sconto fiscale più la benedizione divina e poi no, contrordine! guai a te se li fai, legati le tube, prendi la pillola…».
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Di come sia nato il romanzo, di come scriva le sue storie e che cosa sia la Biocompany, la «fabbrica della carne», ce lo ha raccontato l’autrice stessa.
Partirei proprio da principio chiedendole come sia nato il romanzo…
Non è un’idea nata all’improvviso. Mio padre è stato il primo in Europa a studiare l’inquinamento, il mutamento dei pesci nel Reno, per cui questi argomenti hanno sempre fatto parte del mio immaginario. I suoi studi sull’inquinamento delle acque, dell’atmosfera, della terra hanno sviluppato in me una particolare sensibilità per quelle tematiche anche se non è sfociata in un attivismo politico.
Mi definisco però un’ambientalista, anche se non ho mai fatto parte delle militanze. Ho sentito come se dovessi pagare un debito, e ho deciso di pagare questo debito a modo mio. Infatti, nella realizzazione del romanzo sono partita da dati reali. Se vogliamo, è un po’ come per Atwood ne Il racconto dell’ancella: niente di ciò che racconto non è mai capitato almeno una volta nella storia, anche se il romanzo è ambientato in un futuro imprecisato.
Scrive: «Due cose non mancano mai, neppure nel più miserabile dei campi profughi: la pazienza delle donne e la curiosità dei bambini»…
È un’osservazione che nasce dall’esperienza diretta. Sono stata in vari luoghi e ho visto che cosa significano le condizioni dei campi profughi. Ciò che ho trovato impressionante è che i bambini vivono imparando dal mondo terribile che li circonda. È una curiosità vitale, la loro, che non si spegne. Certo, ci sono poi anche le situazioni in cui i bambini finiscono per suicidarsi, penso ai fatti di attualità, ma quello che ho avuto modo di osservare è stata l’avidità di capire la vita.
Dall’altro canto ci sono le donne, ansiose di ripulire, di apparecchiare le condizioni migliori di vita anche nella più totale miseria. È come se cercassero di preparare la scena al meglio, una cura che non si spegne mai.
La Biocompany, «la fabbrica della carne»: il bene più prezioso sono i bambini, quindi le madri, la fertilità. Che mondo è quello de L’isola delle madri?
È un mondo che si contraddice nel tentativo di tenere in vita la specie perché l’umanità non scompaia. L’uomo è in via di estinzione.
Il problema della contraddizione nasce dal fatto che la scienza e la medicina non sono innocenti. Infatti, la domanda di fondo del libro, anche se la risposta fornita non è definitiva, è la seguente: chi gestirà i nuovi meccanismi riproduttivi? Con quali intenzioni verranno gestiti?
Ecco, nel romanzo abbozzo questa risposta: solo le relazioni che si intessono tra le madri, e i padri, possono portare una speranza, una prospettiva, anche se la questione rimane aperta perché la Biomedicina è un business terribile. Quindi, a favore di chi deve andare?
«La nostra clinica è un santuario», si parla in questi termini della «fabbrica della carne», il luogo in cui si può tornare ad avere figli, soldi permettendo. La fede ha spostato il suo baricentro? La fiducia nella scienza è altrettanto cieca, come qualsiasi altro atto di fede nel trascendente?
Sono due poteri che si fronteggiano e si combattono, infatti, il trascendente non è scomparso, anzi. Se vuoi un figlio, devi ricorrere alla scienza, non è più possibile affidarsi a nessun Dio. Al tempo stesso, c’è chi non accetta. Scoppiano crociate da entrambe le parti. Infatti, la soluzione non può essere questa.
È il buon senso alla base della Repubblica delle Madri, si guarda a ciò che viene dato con amore. C’è la mamma giardiniera che cresce chi le è stato affidato, muovendosi in una rete di madri. Ecco, per me non ci sono altre vie, ma mi rendo conto che si tratta di una domanda alla quale siamo chiamati a rispondere con il nostro immaginario, secondo la definizione di Rosa Braidotti, ovvero con il legame forte che collega ciò che abbiamo dentro a ciò che abbiamo fuori e ci costituisce come soggetti. L’immaginario va coltivato e fare attenzione a questa «colla» che simboleggia il soggetto sociale.
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Ha abitudini particolari per scrivere? Come gestisce la stesura di un romanzo?
Per gli altri romanzi sono sempre partita da fatti di cronaca, dai dati di fatto. Questa volta i personaggi sono venuti fuori a poco a poco mentre leggevo materiali sulle nuove tecnologie e la riproduzione della vita. Sono emerse le figure delle donne con i propri compiti.
All’inizio ero incerta se partire dalla nascita o dalle donne che lavorano alla nascita. Poi ho capito che andavano insieme e che la voce, che racconta il lavoro di queste donne e dell’uomo che l’ha fatta nascere, era quella della creatura nata.
I personaggi sono nati tutti insieme, ciascuna con i propri dolori e particolarità e vicissitudini, poi si sono date la mano e il romanzo ha preso forma.
La stesura di un romanzo di solito avviene in due momenti, uno in cui mi documento e uno di scrittura vera e propria. La parte della documentazione è più rilassata, è la fase della scoperta. È faticoso, ma non quanto scrivere. Lavoro alla scrivania, dal mattino fino alle 18, mi interrompo solo per pranzare. Quando entro in una storia mi è difficile staccare, divento terribilmente distratta e questo dura finché finisco di scrivere. Lo ammetto, sono insopportabile, sempre a rimuginare sulla storia. Poi, a un certo punto, mi costringo a interrompere la ricerca.
La seconda fase è quella della scrittura ed è la più faticosa. Ritrovo il piacere nella riscrittura, nella ricerca della lingua, delle parole, e anche in questa fase resto insopportabile. Può succedere che sia in viaggio verso la trattoria, dove mi aspettano le mie amiche, e io mi attardi fermandomi per strada e prendendo un appunto sull’agenda perché mi è soggiunta la parola che cercavo.
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Per la prima foto, copyright: freestocks su Unsplash.
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