Lettera di addio a Sergio Claudio Perroni
La prima volta che ho letto la notizia della tua morte ho avuto un senso di irrealtà, ho dovuto passare quelle parole nella testa più volte, le ho dovute usare, consumare, come fossero degli oggetti.
Sergio Claudio Perroni si è suicidato.
Io e te non ci conoscevamo benissimo, ma per quello strano potere che ha la letteratura, grazie ai tuoi libri, alle tue traduzioni e alle nostre conversazioni, ti ho scoperto, ti ho letto, ti ho visto, un po’ per volta.
Un paio di anni fa mi hanno dato il tuo libro Entro a volte nel tuo sonno (La nave di Teseo), per una recensione; era un momento particolare della mia vita, dove molte cose stavano cadendo a pezzi e dove non mi era chiaro che tipo di direzione potessi (dovessi) dare alla mia esistenza. Iniziai a sfogliarti a casa, e più ti leggevo più qualcosa, tra quelle pagine, mi si fermava dentro, sedimentava tra i muscoli e le ossa. Di lì a poco conobbi la donna che è poi diventata mia moglie, e per i primi mesi della nostra frequentazione, ogni sera, io e lei ci siamo mandati dei file audio tratti dal tuo libro. Quando te lo dissi mi rispondesti di essere commosso. Inizialmente presi quelle tue parole alla leggera, ma poi, con il tempo, ho capito che mi stavi dicendo la verità.
Il dolore, quello vero, è una cosa che ci cade addosso. Per il vero dolore non abbiamo le giuste parole, è un male antico che ci fa sentire soli, estranei persino a noi stessi.
Una sera mi mandasti una foto della mia raccolta di racconti, mi dicesti: «Eccoti qua, ma dovrai fare un po’ di anticamera, perché sono preso da una traduzione-fiume».
Ti risposi che ero davvero felice di quel gesto. Tempo prima, parlando della scrittura e della vita ti dissi: «Quando scrivo c’è sempre una ferita aperta».
E tu mi rispondesti: «Vivere è una ferita aperta».
Certe volte ci arrivano dei segnali che non siamo in grado di comprendere, forse per distrazione, forse perché nelle conversazioni siamo molto spesso impegnati e centrati su noi stessi.
Quella sera tu mi dicesti: «Ho ordinato i tuoi racconti perché mi ha colpito molto uno scambio sulla bellezza che avevo letto al volo».
Poi quando il discorso si spostò sul mio romanzo La bambina celeste, mi dicesti: «I libri vanno comprati, e appena sarà possibile lo farò. Per leggere quello aspetto un po’, perché ho capito che racconta una sofferenza, e che lo fa bene, quindi con un’efficacia che in questo momento mi nuocerebbe (scusa, ma sono un tipo schietto)».
La bambina celeste parla di un cancro, di una figlia che muore per un tumore, allora non sapevo ancora che tu non avessi figli. Oggi, ripensando a quelle parole, devo dedurre che il male ce lo avevi addosso tu, che il mostro era nella tua stanza.
Albert Camus diceva che vi è solo un problema filosofico serio, quello del suicidio.
Eri un uomo schivo, difficile, ma prima di spararti un colpo in testa hai voluto vedere il mare, per tenere fede, forse, a quella bellezza di cui mi hai sempre parlato.
Il 17 marzo 2019 ci siamo visti per la prima volta (e ultima) a Milano, durante il BookPride.
Io e mia moglie ti venimmo incontro, ti dissi: «Ciao Sergio, sono Francesco Borrasso».
Tu mi guardasti e ti si aprì un sorriso ampio, sincero: «Francesco, che sorpresa, finalmente ci vediamo. Bellissimo quello che hai scritto di Pulce (il suo ultimo romanzo), il finale della tua recensione è di struggente bellezza».
Ci stringemmo le mani, parlammo (di lì a poco avresti dovuto parlare del libro) ti presentai mia moglie. Ricordo che dopo, quando ci salutammo, mi dicesti: «Ciao guaglio’».
Avevi un sorriso che annullava gli spazi bui che vivevano sulla tua faccia.
Il giorno dopo il nostro incontro, su Facebook, scrivesti questo: «Alla presentazione di Pulce al BookPride ho conosciuto di persona Francesco Borrasso. È stato strano, ho visto venire verso di me una coppia di ragazzi a me sconosciuti, e dentro di me ho pensato al piacere che si prova nel vedere due volti che oltre a essere individualmente belli diventano armonia nell’essere insieme. Succede spesso in pittura, ma ovviamente non vale, mentre in natura è rarissimo. Ecco, poi si sono avvicinati e si sono presentati, giovani marito e moglie belli come un El Greco.»
Hai tradotto David Foster Wallace, che si è suicidato in giovane età.
L’ultimo libro che mi è capitato di leggere con la tua traduzione è stato Suicidio di Edouard Levé. L’ultima cosa che mi hai detto è stata: «Lo scopo della letteratura è condividere per con-sentire.»
Mi dicesti che scrivevo bene, e quando ti dissi: «Davvero?» Mi rispondesti: «Non fare il fesso, non lo vedi che metto sempre i like alle cose che scrivi su Facebook?»
Eri fatto così, non volevi tacere nulla, come quando mi raccontasti di una traduzione che stavi facendo su un libro che era una schifezza.
Ti sei sparato un colpo in testa, e il suicido resta sempre un gesto egoistico, perché il dramma è di chi resta. Ma non esiste un modo per mettersi da parte in questa vita. Io non lo so che cosa ti stavi portando dentro, che solitudine, che disperazione. Né posso sapere quanto a lungo tu abbia cercato le parole giuste per dirlo, per raccontarlo, il tuo dolore (parole che non devi aver trovato, perché caro Sergio, quelle parole non esistono). Hai lasciato un foglio di carta per spiegare il tuo gesto, poco importa. Chi ti stava vicino quelle parole le avrà imparate a memoria.
Non ci conoscevamo benissimo, io e te, ma so che avevi una lucidità assoluta, una profondità di sguardo importante, e so che, forse, non hai voluto cedere al disfacimento, a qualcosa che ti avrebbe allontanato troppo da ciò che sei (eri).
Quando muore una persona il presente subisce una frattura, è come se si spaccasse, e per la prima volta si riesce a vedere cos’è veramente la vita. Chi resta non si è sentito mai tanto autentico come in quel dramma, in quella sofferenza. Chi se ne va, ha scelto di vivere per sempre.
«Ti scrivo da qui, dall’ovunque di te che ogni cosa diventa quando le manchi, mi guardo intorno e vedo la gente trasformata in un popolo che ti somiglia, c’è chi cammina come te, chi ride come te, chi guarda a lungo il cielo come fai tu, e io vorrei essere lì, con la faccia dappertutto su di te, e invece sono qui, con intorno i tuoi occhi a farmi da mare...»
Sergio Claudio Perroni, Entro a volte nel tuo sonno
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