Le poesie di Franco Fortini: “Composita solvantur”
Nelle note alle poesie di Composita solvantur Franco Fortini scrive: «Si dissolva quanto è composto». Il riferimento diretto è al componimento Sopra questa pietra, inserito in questa silloge pubblicata per la prima volta nel 1994, pochi mesi prima della sua scomparsa, in cui si allude alla cappella del Trinity College di Cambridge, dov’è ospitato il monumento funebre per Francis Bacon barone da Verulamio (1561-1626). L’epigrafe è del discepolo di Bacon, Henry Watton, e si chiude con l’imperativo e l’augurio che viene assunto a titolo da Fortini: «[…] il disordine succeda all’ordine (ma anche, com’era nel vetusto precetto alchemico, si dia l’inverso)».
Composita solvantur viene ora ripubblicata da Il Saggiatore e comprende una serie di scritti databili dal 1984 al 1993, arricchiti da un prezioso commento di Pier Vincenzo Mengaldo (apparso, nella sua forma originale, sull’«Unità» del 28 marzo 1994). Il testo di Mengaldo è molto utile, al lettore che si accosta per la prima volta all’opera fortiniana, per inquadrare fin da subito la materia po(i)etica di questa voce e di questa testimonianza fondamentale del secondo Novecento letterario italiano. La raccolta potrebbe, a buon titolo, non solo dal punto di vista cronologico – è l’ultimo libro di versi edito di Fortini – considerarsi la summa del pensiero e dello stile fortiniano, nonché il suo testamento spirituale, la sua eredità, finemente cesellata e consegnata con particolare cura e attenzione ai posteri.
Quel che salta subito all’occhio, in questa silloge che si legge – ma che richiede al lettore, per i suoi contenuti, una riflessione a volte complessa e reiterata – in scioltezza e fluidità (tutta d’un fiato, verrebbe da dire), è il suo comporsi (o dissolversi, fate voi) per mezzo di un abile accostamento di estremi. La si avverte come qualcosa di fondato su elementi strettamente personali, eppure si sottrae a qualsiasi tentativo di circoscriverla nel dominio dell’autobiografismo. I motivi crepuscolari del declino, dovuto all’inarrestabile orologio biologico, dell’invecchiamento e poi della morte, sono solo alcuni dei termini di un processo di trasformazione, volto a indagare il dettaglio di ogni esistenza umana, animale o vegetale per collocarlo in una prospettiva universale. Anche il trascorrere del tempo, avvertito e riflesso nella memoria del poeta come un percorso (retroattivo) che ha configurato una sorta di “anomalia” individuale, si miscela e si confonde, azzerando il passato e il futuro, per farli convergere nell’hic et nunc della parola poetica. Lo stile sembrerebbe avvalorare questa impressione per le soluzioni adottate, da una lingua fortiniana che si esprime nel verso libero e quasi prosastico, dove si ricorre all’enjambement per spezzare la continuità dell’enunciato, fino all’adozione delle “gabbie” della metrica, siano esse il sonetto tassiano, l’alessandrino o la terzina dantesca, e il continuo, inesausto dialogo con la tradizione, tra vulgata moderna e una lingua anticheggiante (non solo il titolo ma una poesia in latino, Transi hospes).
Estremi dicevo, anche nella sostanza, nel corpus delle poesie, che potrebbero far pensare a un autore minimalista, per l’estrema levità e, talvolta, compattezza se non rarefazione del dettato poetico, eppur dense nel contenuto e nel plurilinguismo, dove numerosi e ben celati – o apertamente dichiarati – sono gli ammiccamenti a tanti classici italiani. Sintesi e pastiche. C’è in Fortini la spinta senza posa di dissolvere quanto si è composto, l’anelito a mortificare il proprio operato critico e politico; la biografia personale viene parcellizzata per far trionfare la poesia e affidarla alla storia. Conservarsi nelle realtà minime ma sparire di fronte all’universalità della storia, che diviene allegoria. Per questo «ritornerai com’eri» (p. 31):
Quella che.
È ritornata questa notte in sogno.
Uno dei miei compivo ultimi anni.
«Sono, – le chiesi, – vicino a morire?»
Sorrise come allora.
«Di te so, – mi rispose, – tutto. Lascia
Quel brutto impermeabile scuro.
Ritornerai com’eri».
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Meglio, in questa sede, all’agire politico, il surrealismo, altra passione di Fortini, divaricazione tra realtà e utopia, tra utile e dilettevole, tra la coscienza e il sogno. L’effetto di irrealtà raggiunge il culmine nella sequenza delle Sette Canzonette del Golfo. Qui il “surreale” (se così possiamo definirlo, in senso lato) origina dal cortocircuito comunicativo; la riflessione è sulla guerra ma, come osserva Andrea Inglese in un suo intervento (Scrivere di guerra: Fortini e Buffoni, in «Qui. Appunti dal presente», 9, 2004), non c’è traccia di una lettura storico-politica della prima guerra del Golfo. Siamo sempre nel dominio degli estremi che si toccano: la guerra diviene un fatto televisivo, e come la televisione le Canzonette del Golfo ci avvicinano alla guerra e, nel contempo, ce ne separano senza rimedio. Al quadretto idillico del vecchietto nel suo giardino occidentale, che contempla un ragnetto che si dondola al vento, nella sua ragnatela, si contrappongono i clamori (distanti) della guerra (p. 40):
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
A un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Ai popoli “lontani”, oggetto del racconto mediatico della guerra, la tensione dialettica di Fortini contrappone la “durata” della natura; all’inverno della guerra segue la primavera («Aprile torna»), con le sue cicliste floride nel corpo, sprizzanti giovinezza e tutto quel che in un’epoca “lontana”, al vecchietto, «fu diletto». La bellezza e la primavera appartengono davvero a un tempo “altro”. Al vegliardo rimane un solo piacere: «Sì d’aprile il dormire è cosa bella» (p. 44). Dormire, sognare forse. Ma il sonno è qui imparentato con la morte. I versi del vecchio sono impotenti contro la guerra. La soluzione indicata, così come commenta con acume Roberto Talamo in un suo intervento su l’ospiteingrato.org (citando gli studi di Guido Mazzoni e Romano Luperini), è trascendere i livelli di realtà che caratterizzano la vita privata. Il movimento della poesia parte sempre dal passato, attraversa il presente e al passato fa ritorno. L’uomo moderno comprende a fatica come la storia lo possa riguardare (sia essa in forma di “eventi” o di “vite” di uomini consegnati alla lettura e riflessione dei posteri).
Per questo la ricerca di un messaggio che non sia solo individuale ma pubblico è, in fondo, il significato più immediato della poesia di Franco Fortini. Ce lo attesta, se ve ne fosse bisogno, una poesia come Considero errore (p. 88):
Ho guastato quei mesi a limare sonetti,
a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.
La “verità” non è più il compito del poeta nel breve arco di tempo della sua vita, ma di chi verrà. A chi verrà spetta il compito di formulare una spiegazione: «(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare)». Ecco come scompare il poeta: «[…] Puoi sparire, sparire, sparire!» (p. 71); ma non è una resa o una clamorosa sconfitta. «oh, dissigilla i files, selezionali, annientali. / don’t save, don’t save! / Di qui toglimi giovane, contro la sera lenta.» (p. 89). È, piuttosto, una trasmutazione, il processo alchemico della nigredo: si dissolva quanto è composto, composita solvantur, per ri-costituirsi in queste poesie dell’«intelligenza» – così Mengaldo su Franco Fortini –, «rarissima in questi tempi viscerali».
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