Le donne, chiuse tra matrimonio e società. “Le mezze verità” di Elizabeth Jane Howard
Il 17 ottobre scorso è uscito in libreria Le mezze verità, appartenente alla prima fase narrativa di Elizabeth Jane Howard (1923-2014). L’editore che in Italia ha permesso di conoscere la scrittrice londinese è Fazi, nella traduzione di Manuela Francescon, riesumandola da un oblio nel quale sembrava confinata, in particolare grazie alla pubblicazione della saga dei Cazalet, il cui primo dei cinque volumi risale al 2015.
Stavolta già dal titolo notiamo subito un registro che rispetto ad altri si fa più esplicito, indicativo di mistero e ambiguità (in originale Something in disguise, ovvero “qualcosa di camuffato”) con la presenza, nell’ultima parte del libro, di connotazioni goticheggianti e dalle tinte fosche, che vanno oltre le mere descrizioni di un ambiente “da salotto”.
Nonostante questo, la narrazione ha inizio con un evento tipicamente borghese, il matrimonio, dalla toeletta della sposa al banchetto nuziale, condito da riuscitissime venature comiche.
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Anima del romanzo sono i rapporti di coppia – dove per coppia non s’intende solo marito/moglie ma altresì fratello/sorella, genitore/figlio – nel loro complesso e nella loro complessità, dal punto di vista sociale e culturale e nelle dinamiche psicologiche. Tutto scandagliato attraverso diverse messe a fuoco e cambi di prospettiva, con una voce narrante che ci porta dritto nel cuore delle vicende.
La società sullo sfondo è quella perbenista inglese di provincia della prima metà del XX secolo, erede del colonialismo e portatrice di valori e principi vittoriani ancora presenti in molti aspetti della vita pratica e non solo. I rapporti umani sono regolati dalla forma, o dagli aspetti di facciata e, cosa importante, all’interno della famiglia la donna e l’uomo hanno ruoli ben precisi da portare avanti.Da lì non si fugge, e seguire le proprie inclinazioni naturali è una regola riservata al secondo.
I motivi per cui ci si sposa, e ciò tuttavia vale per ogni periodo storico, possono essere diversi e non sempre hanno attinenza con un sincero sentimento amoroso, e lungo il racconto ne troviamo parecchi di motivi. Le protagoniste in primo luogo desiderano una vita vera, che prescinda dal ruolo di moglie e madre e ci provano ognuna coi propri limiti e con le proprie possibilità. Tentano di affrancarsi da una situazione che non riescono o non possono governare, e sanno che per governarla è necessaria l’indipendenza, innanzitutto economica.
Alice, ragazza timida e dolce a cui piace scrivere poesie, mentre è tutta presa nei preparativi del grande giorno (nell’esordio già citato) non solo tenta di sentirsi felice, senza esserlo davvero, ma tenta di sentirsi «in qualche modo più degna della fortuna che le era capitata».
«Che sto facendo?» chiede a se stessa. E si dà perfino la risposta: «Tento di cominciare una vita nuova lontano da papà». La casa da cui esce per entrare in un’altra e formare in tal modo un proprio nucleo è un maniero vittoriano che odiano tutti tranne suo padre, il Colonnello Herbert Bowne-Lacey, un uomo petulante e integerrimo, comunque «un brav’uomo» – caratteristiche che ritrova pure nel suo sposo – con un’alta opinione di sé, il quale ha costretto la sua terza moglie May, vedova di guerra, ad acquistarla coi soldi di un’eredità.
Una casa «brutta, squallida e poco ospitale» che stride con la visione tipica dell’epoca per cui la dimora doveva essere tutto fuorché poco ospitale.
May dal precedente matrimonio ha due figli, Oliver ed Elisabeth, che con le loro decisioni rompono gli schemi, invertendoli. Conducono insieme un’esistenza più moderna in città, con obiettivi personali e professionali differenti. Lui non ha le idee per niente chiare, a parte sognare di fare il mantenuto e sposare una moglie ricca, mentre lei, “gregaria” del fratello e col senso di colpa per aver lasciato la mamma ormai di una certa età, si mette in gioco cercando un’occupazione, nonostante la poca autostima che la contraddistingue. Così facendo andrà incontro alle esperienze, aprendosi a esse e innamorandosi per la prima volta. Conoscerà infatti un uomo che ha il sapore del “principe azzurro”. Ma le favole esistono per davvero? O forse la realtà supera spesso la fantasia? Sembra ci voglia domandare l’autrice, attraverso Le mezze verità.
May perciò si ritrova senza i figli e senza la figliastra Alice, a cui si sente legata (ribaltando tra l’altro il cliché della tipica matrigna) e dunque sola col marito.
Questo la condurrà, e insieme a lei chi legge, a un risvolto finale che è d’obbligo non svelare in questa sede, ma che rivela la capacità della scrittrice di andare oltre il proprio sguardo narrativo.
Tuttavia, non è l’unico risvolto decisivo; ce ne sono altri, tessuti in una trama densa, infittita da lunghi dialoghi e numerosi fatti della vita quotidiana: di questi ultimi alcuni sono persino banali, ma resi vivaci dalle precise e fin troppo dettagliate descrizioni che si fanno quasi resocontie le parentesi che allungano il percorso. Proprio come nella vita vissuta.
Oppure potremmo dire, come nella vita vissuta da Elisabeth Jane Howard. Lei, ed è fuor di dubbio, la possiamo ritrovare “in ordine sparso” e non soltanto in una delle protagoniste che porta il suo primo nome. Ma perché ha toccato con mano e sperimentato sulla sua pelle molte delle situazioni rappresentate. Operazione svolta in altri lavori. Oltretutto, essendosi sposata tre volte il matrimonio lo conosceva bene.
La sua è stata una vita appassionata, passionale e turbolenta che non le ha permesso di emergere dal punto di vista letterario. O meglio, era conosciuta sì, ma più per le scelte intime e personali o forse proprio in quanto donna era conosciuta più per le scelte intime e personali. Moderna e coraggiosa ma anche fragile e sempre alla ricerca di affetto.
Ritornando alla narrazione, troviamo inoltre dei flussi di pensiero inseriti in modo strategico, che piegano il lettore alla mente del personaggio per poi vedere il personaggio ribaltarsi. Come dire, siamo quella voce interiore che ci parla ma poi ci comportiamo secondo le circostanze o secondo le convenzioni. Non siamo mai compiuti del tutto. Ci caratterizziamo e ci adattiamo in virtù o a causa della persona o delle persone con cui entriamo in contatto e sulla base del contesto in cui ci troviamo.
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Per concludere, Le mezze verità è un’opera realista e realistica, in quanto esprime e reclama, senza mancare di ironia, la situazione femminile nella classe medio-alta, non immune da stereotipi o pregiudizi rispetto alle classi più povere. Anzi, la donna aveva un ruolo prestabilito e preconfezionato maggiore rispetto a quella proveniente dai livelli più bassi. Howard non parla di donne, parla di società, di una specifica e ben definita società, divenendo così elegante interprete e fine indagatrice di quella a cui appartenne, come seppe fare in America Edith Wharton a cavallo tra Ottocento e Novecento.
«Solo il tempo cambia tutto, che lo vogliamo o no» dice Oliver alla sorella Elisabeth. Una profezia se pensiamo al successo della scrittrice britannica avvenuto così tardivo.
Per la prima foto, copyright: Annie Spratt su Unsplash.
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