“Le ali della vita”, incontro con Vanessa Diffenbaugh
Vanessa Diffenbaugh si ripresenta ai lettori italiani con Le ali della vita (Garzanti, traduzione. di Alba Mantovani), a quattro anni di distanza dalla pubblicazione del suo primo romanzo Il linguaggio segreto dei fiori (Garzanti, 2011), che è stato un grande successo mondiale.
Se nel libro precedente la protagonista era una ragazza orfana e disadattata alla ricerca di una figura materna e di nuovi affetti, qui troviamo Letty, una californiana poco più che trentenne, figlia di genitori messicani emigrati clandestinamente a San Francisco, che si guadagna da vivere come barista ma che appare del tutto incapace di occuparsi dei suoi figli, Alex di quindici anni e Luna di sei. Sono nati da una madre troppo giovane, e da padri diversi che non li hanno nemmeno mai conosciuti, ma sono cresciuti bene con la nonna Maria Elena, che si è sostituita alla figlia nell’accudirli. Letty, del resto, impegnata a lavorare di notte per guadagnare di più, è stata ben felice di abdicare al proprio ruolo materno in favore dell’energica e competente nonna. La crisi scoppia quando il nonno decide di voler tornare a vivere in Messico, obbligando la moglie a seguirlo per condividere con lui gli anni della vecchiaia. Ritrovatasi sola, Letty cade in preda al panico, fino a inseguire i genitori abbandonando per qualche giorno a sé stessi i due figli. Tuttavia, dopo quest’ inizio disastroso, la donna riuscirà a costruirsi un ruolo materno, soprattutto grazie all’aiuto di Alex, il figlio maggiore che sogna di fare lo scienziato, ma che dopo la partenza dei nonni comprende di doversi impegnare a fondo per aiutare la madre a tenere in piedi la famiglia.
Pubblicato con quattro copertine diverse, dove compaiono quattro ciondoli dal significato differente (lucchetto = fedeltà, farfalla = libertà, cuore = amore, gabbia = coraggio di cambiare) a simboleggiare i temi principali toccati dalla narrazione, Le ali della vita viene presentato in questi giorni in Italia nel corso di una serie di incontri con Vanessa Diffenbaugh, che sarà presente anche al Salone del Libro di Torino.
Questa è l’intervista che ha concesso ai blogger a Milano, nella deliziosa cornice del Fioraio Bianchi Café.
In un certo senso, la vicenda di Le ali della vita appare speculare a quella di Il linguaggio segreto dei fiori: si passa da una figlia che cerca una madre, a una madre che fugge dai figli ma poi torna da loro. È idealmente un seguito?
Non avevo mai pensato in questi termini, ma ero sicura che non avrei mai scritto il seguito di Il linguaggio segreto dei fiori, a cui in principio avevo dato un finale diverso: la protagonista doveva creare un rapporto con la figlia adolescente, ma il mio editore ha bocciato l’idea. Così, forse, quando mi sono seduta a scrivere questo secondo romanzo ho pensato di cominciare da dove avrei voluto terminare il precedente.
Quali emozioni si provano tornando a scrivere dopo aver ottenuto un grande successo?
Tutti mi dicevano che sarebbe stato molto difficile, ma io non pensavo che avrei avuto tanti problemi perché non mi preoccupo mai molto delle recensioni: mi preoccupo molto di più dei miei lettori, perciò ho iniziato a chiedermi cos’avessero apprezzato oppure criticato nella storia precedente, per capire cose scrivere per accontentarli. L’anno scorso mi sono resa conto che dovevo impegnarmi maggiormente, così andavo ogni lunedì sera a dormire in un hotel per scrivere con calma. Sono arrivata a lavorare per trentasei ore di seguito per riscrivere del tutto la prima bozza, di cui non ero soddisfatta: ho persino pensato che stavo abbandonando i miei figli!
Quanto c’è di lei, che è madre di quattro figli, in questo romanzo?
Quando scrivo non penso mai di metterci nulla di personale, finché non mi fanno domande di questo tipo, e allora mi rendo conto di quanto abbia effettivamente preso dalla mia vita. Come Letty, i cui figli sono stati cresciuti dalla nonna, io ho iniziato a occuparmi del mio primo figlio adottivo quando aveva già quindici anni. Ho anche avuto un patrigno eccezionale, che nel romanzo ritorna nel personaggio di Rick.
In tema di adozioni e affido, può dirci due parole sulla sua esperienza di Camellia network?
Ho creato questa rete dopo aver scritto il primo romanzo, pensando che avrei potuto sfruttare il suo successo presso lettori di tutto il mondo per sensibilizzare la gente sul problema dell’affido. Si tratta di far conoscere quei ragazzi che diventano troppo grandi per essere adottati o sostenuti dallo stato, anche se è difficile reperire fondi. Ora però una grande organizzazione no-profit acquisirà la rete e questo ci farà aiutare molte più persone.
Nel primo romanzo si parlava di fiori e di vigneti, mentre in questo c’è Alex, che impara dal nonno a osservare gli uccelli. Sono solo invenzioni letterarie oppure esprimono un suo amore personale per la natura?
Io sono cresciuta in una cittadina della California del nord circondata da campi, verde e frutteti, dove non è che ci fosse molto da fare per noi adolescenti, per cui inforcavamo le nostre biciclette e facevamo grandi giri nei campi. Così ho trascorso molto tempo nella natura. Nel primo romanzo i fiori erano un elemento di comunicazione tra una bambina orfana e una possibile madre, in Le ali della vita volevo parlare di istruzione, educazione e immigrazione, ma siccome i protagonisti vivono in una zona paludosa ricca di uccelli, il nonno ne raccoglie le piume, che diventeranno importanti per la crescita del nipote. Per me un libro non diventa vivo finché non ci entra un elemento naturale, e quando ho pensato a questo nonno collezionista di piume ho capito di essere sulla buona strada.
In questo libro la madre e il figlio sembrano crescere insieme. Secondo lei è un male, quando i genitori sono troppo giovani, o è un’ipotesi possibile?
Ci sono pro e contro nel crescere i figli a qualsiasi età: le madri giovani non hanno esperienza, però sono piene d’energia e giocano molto con i figli rispetto a quelle più mature. Letty commette un grave errore lasciando i figli all’inizio, ma poi per tutto il libro cerca di rimediare e di crescere come madre. È una donna che si sforza di fare del proprio meglio: noi giudichiamo spesso gli altri secondo le apparenze, ma poi dobbiamo cercare di capire cosa succede dentro di loro, e per me far capire l’interiorità dei personaggi è il bello dello scrivere.
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È molto bello il personaggio della nonna, che è abbastanza matura da tirarsi indietro per permettere alla figlia di acquisire il suo ruolo materno, e io ho trovato molto umano il rapporto di rivalità fra madre e nonna nella cura dei bambini. Come vede questo triangolo?
Maria Elena è senz’altro uno dei miei personaggi preferiti, perché il suo allontanarsi è la cosa più difficile che possa fare una madre. Bisogna capire quando è il momento di lasciare che i figli se la cavino da soli.
L’amore è visto come una panacea: alla fine è quello che permette a tutto di ricomporsi?
Per me sì, l’amore ha questa capacità, e lo vedo anche nella mia vita. Spesso mi chiedono se le persone possano veramente cambiare e io penso di sì. So che è una visione molto ottimistica, ma io ci credo, anche se non è facile riuscirci.
Considera molto speciale il rapporto tra una madre e un figlio maschio?
Alex è il personaggio più forte e che ho sentito di più fin dall’inizio. Era vivo ai miei occhi e sapevo già in partenza cos’avrebbe detto o fatto lungo la storia, mentre sugli altri ho dovuto lavorare molto di più. In principio non volevo occuparmi strettamente del rapporto tra madre e figlio, ma dopo quello tra madre e figlia del primo romanzo dovevo in ogni caso cambiare.
In entrambi i suoi romanzi le vicende sentimentali sono in secondo piano, ma come mai ha scelto di lasciare molto in ombra le figure paterne?
È curioso, ma non mi hanno mai fatto questa domanda, e credo di non averci mai pensato con serietà. Credo che dipenda dalla mia capacità di scrittrice di raccontare o meno le figure maschili, anche se ho avuto un padre fantastico, che è sempre stato vicino a noi figli pure dopo il divorzio, poi un ottimo patrigno e ora ho accanto a me mio marito. Sono io che non mi sono mai sentita così folle da decidere di assumere scrivendo il punto di vista di un maschio adulto. Ho cominciato con Alex, che come personaggio maschile ha una grande forza, ma ha soltanto quindici anni.
Lei ha una famiglia impegnativa. Si sente più donna di famiglia, madre o scrittrice?
Ho pensato spesso a questo, perché scrivere il secondo romanzo senza trascurare la famiglia è stato davvero difficile, ma ho scoperto che in passato tantissime scrittrici abbandonavano la famiglia per seguire la professione: Doris Lessing, per esempio, ha lasciato marito e figlio. Se qualcuno mi dicesse di scegliere è ovvio che sceglierei la famiglia, ma credo che sia possibile fare entrambe le cose. I genitori moderni vogliono essere sempre presenti nella vita dei figli, ma questo richiede un impegno consistente ed è difficile trovare spazio per fare altro. Sto scrivendo appunto un saggio sui “pensieri di genitore portati all’estremo e vita dello scrittore”.
Da dove è venuta la prima ispirazione per questo romanzo?
Sapevo che avrei voluto concentrarmi sull’istruzione e sul problema delle disuguaglianze in America. Avevo letto la storia di una donna dell’Ohio, che viveva in un quartiere popolare di Cincinnati e che era stata processata per aver falsificato i dati, in modo da poter mandare i figli in una scuola migliore. La polizia aveva speso 6000 dollari per capire se i bambini avessero diritto di frequentare quella scuola, il che mi sembrava assurdo. La mia prima bozza era davvero troppo politicizzata, perciò ho fatto un passo indietro e mi sono concentrata di più sui personaggi.
Idee per il prossimo libro?
Per ora mi sto dedicando a questo saggio sull’educazione e non so se alla fine diventerà un libro. Negli Stati Uniti si finanziano le scuole, ma non si capisce perché certe ricevano più soldi di altre. Noi abbiamo scelto di mandare nostra figlia di otto anni in una scuola frequentata quasi esclusivamente da bambini di colore e di estrazione sociale bassa perché volevamo che imparasse a convivere con le diversità.
È possibile educare i ragazzi alla lettura nelle scuole? Secondo lei c’è un modo giusto per farlo?
Io posso dare solo il mio giudizio come madre. Cerco di non interferire con quello che legge mia figlia, che per ora ama letture abbastanza stupide, ma penso che imparerà a poco a poco ad apprezzare storie più impegnative, e a capire il valore dei personaggi. I libri sono sempre e comunque una cosa bella.
Lei ha dichiarato di leggere, ma soprattutto di rileggere molto. Quali sono i suoi autori preferiti?
Ci sono tantissimi autori che tendo a rileggere e questo secondo me è importante per chi vuole fare lo scrittore: nella prima lettura di solito siamo presi solo dalla storia, mentre la seconda ci serve a capire meglio i personaggi e le loro motivazioni. Attualmente sono molto presa da John Steinbeck, forse perché io vivo a Monterrey come lui, e sono affascinata da Uomini e topi. Pur essendo lungo solo 75 pagine, è denso di emozioni, e io non ho mai pianto così tanto come leggendo questo libro.
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