La vita, un albero resistente ai venti del dolore. “L’arte di rialzarsi” di Salvatore Falzone
Soffiano i venti del dolore, a volte improvvisamente, e si abbattono su quell’albero chiamato vita che tenta di resistere alla melma torbida da cui sono avvolti, in alcuni momenti, la mente e l’animo umani. Un male oscuro che dalle radici risale lungo il tronco e ne pervade ogni singola diramazione, facendo sì che i rami non tendano più verso l’alto – il futuro –, ma verso la terra – il passato –, schiacciati da un peso sempre più greve e incomprensibile.
Un fardello che può avere diversi nomi e diverse forme, ma che produce un risultato comune: toglie ossigeno a quell’albero e gli impedisce di far sbocciare i suoi fiori e maturare i suoi frutti, con l’intento di condannarli a un perenne inverno. E a volte ci riesce, quando le radici affondano nella melma e la linfa vitale esaurisce la sua forza reattiva, lasciandosi contaminare da quella fanghiglia tossica; altre volte, invece, i rami piegati trovano un sostegno e, lentamente, quel male che si è impossessato di loro si ritira, li alleggerisce e li fa risalire, verso l’alto.
Ne sa qualcosa Salvatore Falzone, autore del libro autobiografico L’arte di rialzarsi (Marsilio, 2018), che nella scrittura ha trovato un antidoto al male oscuro nella cui rete è rimasto imbrigliato sin dagli anni della scuola media, momento in cui l’idea del suicidio si è materializzata nella sua mente per la prima volta.
E quello è l’inizio di un percorso di vita che, malgrado la sua giovane esistenza, è segnato profondamente da episodi di violenza fisica e psicologica legati alla sua omosessualità e da un senso enorme di abbandono, solitudine e incomprensione che gli si appiccica addosso, come una seconda pelle.
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Nelle sue duecentottantadue pagine – a cui segue, a conclusione del romanzo, un dialogo tra l’autore e lo psichiatra Paolo Crepet – Salvatore Falzone si consegna al lettore nella sua nudità fragile e incompiuta, rompendo quel tabù imposto dalla società di oggi che ci vuole, al contrario, tutti impermeabili al fallimento e alla sofferenza. Eppure, come scrive lui stesso in una delle lettere presenti nel romanzo e indirizzate a Carla Dalmasso, la sua ex professoressa di italiano:
«Ma la tristezza è bella. Tutti a demonizzare questa emozione, tutti alla ricerca frenetica della felicità... La tristezza è la chiave di tutto. La tristezza lascia davvero il segno. Si tratta di segni sbiaditi, certo, che il tempo spazza via... ma segni...»
Segni che sull’adolescente Falzone ci sono, alcuni si sono cicatrizzati, altri sono ancora lì, ferite che sanguinano, a volte provocate da lui stesso con gesti di autolesionismo che non sono altro che un modo di esprimere un dolore sì totalizzante e distruttivo, ma invisibile agli occhi degli altri perché resta nascosto sotto le ossa e lo strato di pelle. Allora è lui stesso ad assegnargli un corpo che prende la forma di abbandoni scolastici, ricoveri in ospedali, periodi di fuga e di permanenza lontano da casa, incontri con psichiatri e psicologi, chiacchierate e messaggi scambiati con alcuni coetanei, confronti con una famiglia che, nella sua imperfezione comune a tutti i nuclei familiari, resta un punto di riferimento, il porto sicuro in cui alla fine la barca di ognuno fa ritorno, malgrado i litigi e le «brutte parole che rimangono nell’anima», come si legge in un’altra delle sue lettere.
Redatto in prima persona, questo romanzo d’esordio del giovane scrittore piemontese ci fa entrare in una storia in cui si intrecciano il mondo degli adolescenti e degli adulti, delle malattie della psiche e dei suoi “guaritori”, della casa e della scuola, della società e dell’interiorità di ognuno, toccando delicatamente delle tematiche – il bullismo, l’omofobia, la depressione – che troppo spesso vengono affrontate con banalità e superficialità.
Divisa in tre parti – ognuna dedicata, rispettivamente, alla fuga, alla caduta e alla risalita –, la narrazione inizialmente appare segnata da una certa lentezza, connessa soprattutto alle descrizioni minuziose delle azioni e delle ambientazioni in cui si muove la figura di Salvatore, ma allo stesso tempo questa stessa monotonia assume, a conclusione della lettura, un significato: il percorso di maturazione di un’anima disorientata e sofferente come quella del giovane protagonista non è un processo rapido, ma un viaggio lungo, fatto di varie tappe che passano anche per episodi dolorosi – significativa è la vicenda dell’attacco omofobo che subisce Salvatore in un bus – e per le delusioni derivanti, nel suo caso, dalla constatazione che le vite delle persone siano soggette, giustamente, ai cambiamenti, come ben simboleggiato dal suo periodo trascorso a Roma.
È un percorso, quello raccontato con coraggio dall’autore, in cui emerge un bisogno impellente di appiccicare un’etichetta a quella scatola in cui la sua mente e la sua anima sembrano imprigionate, una scatola di vetro trasparente perché, attraverso queste pagine, lo scrittore ci restituisce una fotografia precisa delle sue ferite, delle sue cicatrici e delle sue debolezze. E lo fa senza vergogna, senza nascondersi dietro a giochi di parole, ma con un linguaggio schietto e diretto, come se non stesse parlando a un potenziale pubblico di lettori sconosciuti, ma a un amico intimo a cui, con fiducia, si consegna in tutta la sua umana frangibilità.
«Non sono bipolare. Non sono nemmeno depresso. Ho un disturbo borderline di personalità, le cui conseguenze possono essere talvolta depressione e ansia. Il mio problema fondamentale è che non riesco a gestire le emozioni. È come se tutto quello che sento fosse solo vuoto, e talvolta a questo vuoto ci si appiccicano emozioni varie, e sono forti e mi disorientano, perché durano poco e poi si staccano. E rimane il vuoto. Vuoto. Per me è come precipitare in un abisso e non sentire nulla. Guardare un monumento bellissimo o un tramonto e non sentire nulla. E poi ci sono le emozioni forti. La rabbia è quella più brutta...»
Ma il nodo principale di questa storia è proprio in questa capacità dell’autore di guardare dentro al proprio abisso, di fissare negli occhi quel mostro che vuol trasformare la sua vita in un albero senza radici, pronto a cadere alla prima raffica di vento che ne scompiglia le foglie e piega i rami, distruggendo i germogli pronti a sbocciare. La chiave di questa narrazione sincera e autobiografica sta nel riconoscere l’esistenza del dolore e condividerlo con la famiglia, con la scuola, con gli insegnanti, con i coetanei e anche con gli sconosciuti – gli psichiatri, gli psicologi, l’addetto del centro dell’impiego a cui il protagonista si rivolge per cercare un’occupazione –, tentando in questo modo di trovare la porta che dà accesso alla risalita. Perché il filo di Arianna di questo labirinto di parole pronunciate da Salvatore, a volte con forza, altre come un sussurro, è un desiderio di vita che, ingannato dalla paura, sembra pronto alla resa, ma in realtà si mostra in tutta la sua forza quando si oppone all’attrazione esercitata dalla morte quale unica alternativa possibile alla sofferenza.
«...Quando cadi a terra e ti fai veramente male, hai due opzioni: la prima è lasciare che il dolore ti spezzi, restare a terra immobile a piangere e aspettare che la morte arrivi mentre sguazzi nell’angoscia; la seconda è mettere da parte la sofferenza – perché́ tanto è come un mare in cui sei sommerso e ci sarà per un bel po’ di tempo, anche se rimani a terra – e rialzarti. Magari puoi trasformare quella sofferenza in una forza. Tu hai sofferto, ma ora stai andando avanti. Sei più̀ forte di quel dolore.
Sei più forte di tutto.
E allora ti rialzi...»
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Come per qualsiasi essere umano, la risalita di questo adolescente trasuda dolore. Una tristezza che al lettore arriva dritta in faccia, come un pugno impossibile da scansare. E lo fa sentire così coinvolto nelle vicende del protagonista, nei suoi incontri nell’istituto di igiene mentale, nei suoi viaggi, nei suoi passi nei corridoi e tra le aule della scuola, da far emergere in lui un desiderio forte di abbracciare quel ragazzo sconosciuto e prendersi, pelle contro pelle, una parte del suo tormento. Perché è difficile restare indifferente a queste pagine cariche di angoscia, di senso di solitudine e abbandono, di quell’ansia di non essere accettati per ciò che si è e di una paura, enorme, di fallire, deludendo le aspettative degli altri, soprattutto di coloro a cui si è legati da un amore viscerale e primario: i genitori.
Nel fallimento, infatti, risiede uno dei principali timori di questo giovane ragazzo che si tortura, definendosi un fallito, un perdente, un individuo incapace di imparare dai propri errori e destinato costantemente a sbagliare.
«Io, invece, sono uguale all’anno scorso... Sono il ragazzo che, ancora dopo quasi due anni, non riesce ad andare a scuola. Sono il ragazzo che ancora non riesce a trovare una soluzione, dopo ben quattro ricoveri. Sono il ragazzo con poche amiche che sta sempre chiuso in casa a scrivere o dormire o guardare la televisione o fissare un punto della stanza. Sono il ragazzo che ha le cicatrici di tutti i tagli che si è inflitto sull’avambraccio sinistro. Sono il ragazzo instabile, che si sente male appena accade una piccolissima cosa negativa...
Non sono mai cambiato...»
Eppure, è proprio alzando il velo sui propri sbagli che il protagonista-autore scopre la sua vera identità, la sua passione e soprattutto la strada in grado di condurlo in quell’angolo di mondo a lui più congeniale: è proprio così cheil suo albero della vita riesce a trovare un lembo di terra in cui le radici, illuminate dal sole, si fortificheranno e, allorché i venti del dolore torneranno a soffiare, saranno pronte a sostenere quel tronco e quei rami. E quest’ultimi, pervasi dalla forza rigeneratrice di una passione – la scrittura, in questo caso – anche quando tenderanno verso il basso, alla fine si rialzeranno e si protenderanno verso l’alto. Verso il futuro.
Per la prima foto, copyright: Badder Manaouch.
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