La vera storia delle zitelle. Intervista a Valeria Palumbo
Partendo da Cita, zita, zitella, Valeria Palumbo ricostruisce in Piuttosto m'affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle (edito dall’enciclopedia delle donne) la vicenda di molte donne, più o meno note che, nel corso delle Storia, decisero di non sposarsi. Nel libro l’autrice parte dall’antica parola che indicava la ragazza non maritata, evidenziando come il suo significato si trasformò in un insulto nella società patriarcale, la quale faceva fatica a considerare per le donne una vita diversa dal matrimonio. Tante sono state le zitelle che si incontrano tra le pagine. Dalle Amazzoni passando per le Vestali, Ipazia, Pulcheria, la regina Elisabetta e Cristina di Svezia, fino a Jane Austen, Emily Dickinson e e Virginia Woolf che poi, alla fine quando più nessuno se lo aspettava, sposò Leonard Woolf. In realtà, non mancano nemmeno figure del mondo della narrazione, scrittrici e attrici che scelsero di essere zitelle. Una decisione spesso criticata, mal compresa e interpretata come una ribellione alle regole della società. Vero è che il libro di Valeria Palumbo non solo ci fa conoscere quelle donne che scelsero di non sposarsi mai, ma ci aiuta a comprendere meglio il senso della loro scelta di nubilato e le difficoltà socio-esistenziali che essa comportò per la zitelle.
Come è nata l’idea del suo libro dedicato alle zitelle e del titolo Piuttosto m’affogherei?
L’idea del libro segue il mio filone principale di ricerca per la storia delle donne: le ribelli, quelle che hanno messo la libertà o le loro aspirazioni al primo posto, le donne fuori dagli stretti binari imposti dalla società tradizionale e patriarcale. Le nubili hanno costituito, in questo senso, una “minoranza” interessante ma soprattutto perché è molto più variegata ed estesa di quel che si potrebbe immaginare. Il titolo poi è tratto da un passo di un bellissimo dialogo (una forma letteraria) rinascimentale, Il merito delle donne, di Moderata Fonte, pubblicato postumo nel 1600 poiché l’autrice morì di parto. Moderata immagina che un gruppo di nobildonne veneziane si ritrovi a conversare nella bella dimora di una di loro, rimasta vedova da poca. Quando una dama più anziana chiede alla giovane e bella padrona di casa perché non si risposi, lei risponde “Piuttosto m’affogherei”. A quel punto le altre si uniscono in un inno alla libertà e alle doti delle donne.
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Nel libro si parla di zitelle, quanto è stato travisato nel tempo il significato vero della parola?
Che il destino delle donne sia di essere madri è una costante di quasi tutte le culture umane. Molte società hanno inquadrato questo destino in una serie, piuttosto variabile, di formazioni familiari. In quasi tutte i diritti, i desideri e le aspirazioni delle donne sono stati a lungo schiacciati. Come far stare le donne in queste “scatole”? Rendendo la condizione di nubile svantaggiosa e, soprattutto dall’età romantica, con l’affermarsi del cosiddetto matrimonio d’amore, riprovevole. Direi dunque che una vera e propria pubblicistica e letteratura contro le nubili, le zitelle, esiste dall’Ottocento. Anche perché il cristianesimo prima e il cattolicesimo poi avevano esaltato la verginità consacrata. I protestanti, invece, mettono il matrimonio al centro della società.
Tra le pagine si incontrano le donne che hanno respinto il matrimonio, secondo lei perché?
I motivi sono i più vari: dal disgusto del sesso con un uomo alla voglia di dedicarsi agli studi o alla meditazione religiosa. Dopodiché, sin dall’antichità, molte sono state costrette a non sposarsi: dalle Vestali alle monache forzate, un costume odioso che è durato sino a tempi relativamente recenti. Il punto direi è che, fino a quando alle donne non è stato concesso di lavorare e mantenersi come un uomo, il nubilato è stata una scelta difficile. Le nubili hanno occupato, fino agli anni Ottanta, gli strati più bassi della popolazione. A meno, ovvio, che non avessero ereditato grandi fortune familiari (ma spesso le donne non hanno avuto neanche il diritto di ereditare).
A un certo punto si parla di molte protagoniste e del fatto che presero i voti religiosi. Una via di fuga o un’àncora di salvezza per avere una formazione culturale?
La scelta religiosa ha ragioni diverse. E assume forme diverse nelle varie culture. Direi che per alcune monache medievali, per esempio, è stata una forte scelta di autonomia. Penso a Santa Chiara, prima donna a scrivere una regola monastica. Quanto all’istruzione è vero che alcuni conventi femminili medievali e rinascimentali sono stati importanti centri culturali ma per le donne è valsa meno la tipica scelta di mandare i bambini maschi in seminario per farli studiare. Molte monache, e penso alla grande Juana de la Cruz, sono state ostacolate ferocemente nei loro studi. Direi invece che le donne hanno saputo creare all’interno delle istituzioni religiose insospettati spazi di libertà e cultura. E penso al gruppo di pittrici-monache che lavoravano intorno a Plautilla Neri a Firenze o attorno a Orsola Caccia a Moncalvo.
Ieri, e anche oggi, quanto intimoriva una donna colta, intraprendente e indipendente?
Diciamo una cosa un po’ paradossale. Quello che intimorisce non è la cultura o l’intraprendenza in sé, né il genere di chi la esercita. Ma la “devianza” dalla norma. In un mondo patriarcale e tradizionale, le donne non devono studiare né prendere iniziative. Se lo fanno spaventano perché aprono varchi, non sono più controllabili. Ma lo stesso vale per un intellettuale nero in una società razzista. Oggi, laddove la cultura e l’intraprendenza femminile sono valori accettati (l’inerzia contraria è maggiore di quanto non si creda e spesso le più infastidite sono le altre donne) nessuno si intimorisce. Su questo sono piuttosto ottimista. Progrediamo in quasi tutto il mondo.
Tra le tante zitelle presenti nel libri (filosofe, scienziate, poetesse, scrittrici, pittrici, musiciste) ce n’è qualcuna alla quale è più affezionata?
Ho amato tutte quelle che hanno fortissimamente voluto la loro libertà e hanno pagato il prezzo alto che la società ha imposto loro. Dalle scrittrici alle scienziate. Ma vorrei fare i nomi di due sovrane in particolare: Elisabetta I e Cristina di Svezia. Perché il loro è stato, pur nella sua eccezionalità, un modello per tutte.
Perché spesso nel corso della storia il termine zitella e verginità andava di pari passo, come i pezzi del puzzle che combaciano alla perfezione?
Perché il controllo della sessualità femminile è stato il primo obiettivo della società maschilista e patriarcale: se proprio non vuoi sposarti allora ti imponiamo una rinuncia totale al sesso. Inutile dire che per gli uomini ciò non è valso. Ma sul celibato cattolico ci sarebbe da fare una lunga riflessione.
Come ha svolto e in quanto tempo il lavoro di ricerca?
La ricerca, chiedo scusa se sembro retorica, non inizia e non finisce. Nel senso che il materiale si va accumulando negli anni, magari occupandosi di tutt’altro. E poi continua ad accumularsi. Potrei già scrivere un altro saggio sul tema. Diciamo comunque che tra il progetto avviato con le editrici dell’Enciclopedia delle donne, Rossana Di Fazio e Margherita Marcheselli, alle quali va la mia stima profonda, e la pubblicazione sono passati cinque anni circa.
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Cosa vuol dire essere zitella oggi?
Vuol dire rifiutare con ironia anche il cliché della single alla Sex and the City. Il termine è del tutto fuori moda e usarlo è un vezzo, quasi a dire: non sarò come mi vogliono gli altri.
Il prossimo libro?
È appena uscito L’epopea delle lunatiche. Storie di astronome ribelli, per Hoepli. E adesso vorrei occuparmi di nuovo delle antiche romane.
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Per la prima foto, copyright: Kleiton Silva.
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