La strada di Ilaria Alpi percorsa da Francesco Cavalli, a venti anni dalla scomparsa
La strada percorsa dalla giornalista di Rai3 Ilaria Alpi è rimasta pressappoco la stessa, anche se sono passati tanti anni. Invariata probabilmente per come se l’immagina il turista/visitatore/giornalista occidentale, impregnato delle sue fantasie nella migliore delle ipotesi, o di pregiudizi e di luoghi comuni nella maggior parte delle volte. Lingua d’asfalto o lungo sentiero di terra battuta che sia, questa strada è stata un chiodo fisso per anni nella testa del giornalista Francesco Cavalli, direttore del Premio Giornalistico Ilaria Alpi, intenzionato a percorrerla, a batterla palmo a palmo. Non solo perché potrebbe essere la pista che conduce alla scoperta di una delle verità più scomode dell’Italia del dopoguerra, ma anche perché, a questa latitudine tanto affascinante, quanto disastrata, la strada di Ilaria Alpi, diventa quasi un luogo della mente. Cavalli pubblica per Milieu Edizioni La strada di Ilaria (che diventerà anche una rappresentazione), nel ventesimo anniversario del tragico assassinio insieme al cineoperatore Miran Hrovatin, in cui racconta questo viaggio a lungo inseguito, non tanto (o non solo) per ricostruire l’inchiesta sulla morte della giovane cronista, ma per reperire le tracce e definire le tappe di un vissuto, fatto di volti, di incontri in cui l’Italia si svela in un ritratto inedito e a volte sorprendente. Come nei volti della giovane diciottenne Marian, dalla bellezza straordinaria, e di suo nonno Hei Moi Isman, camicia nera, che aveva combattuto con l’esercito italiano ai tempi della colonizzazione italiana.
Che cosa hai trovato lungo questa pista tra Garowe e Bosaso, durante il tuo viaggio?
Ho trovato tanta Italia, ho trovato l’ambiente che Ilaria aveva vissuto. Ho voluto scrivere una cosa diversa, non una celebrazione, ma ho voluto raccontare il lavoro di Ilaria, di chi come lei percorreva chilometri, incontrava persone, ricostruiva vicende per essere fedele alla verità e onesta nel suo mestiere sino in fondo. A volte un lavoro sporco, duro, difficile, ma che ha ancora un grandissimo valore.
E che cosa ti ha affascinato in particolare?
Non volevo riscrivere l’inchiesta. Certo, spunti e stimoli ce ne sarebbero, visto che il caso è ancora irrisolto. In questo romanzo, ho deciso di raccontare qualcosa in più, quei rapporti tra Italia e Somalia che sono ancora vivi grazie soprattutto alle persone. In Somalia, la presenza dell’Italia, potenza colonizzatrice, è ancora viva nelle pietre miliari lungo la strada, in alcuni edifici di Mogadiscio, nei solchi sui volti degli anziani che ricordano il regime. Ci sono questi elementi che andavano raccontati: lo spunto me l’hanno fornito innanzitutto i genitori di Ilaria, Giorgio, scomparso qualche anno fa, e Luciana, con cui sono stato in contatto sin da subito e con i quali sono nati un’amicizia profonda e un legame autentico. Ho avuto modo anche di incontrare alcuni ragazzi somali a Roma che fanno parte del programma di protezione. Grazie a loro, ho capito molte cose.
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Con la famiglia di Miran Hrovatin, invece?
La famiglia di Miran ha scelto la via del silenzio, più per una questione di privacy che di prudenza, ha scelto di non entrare nella dinamica dell’inchiesta che ogni volta riapriva la ferita, per distaccarsi da questa tragedia. Luciana e Giorgio hanno lottato per arrivare alla verità. Troppi capitoli sono ancora aperti.
Con Ilaria Alpi si è conclusa quella stagione del giornalismo d’inchiesta? Ora l’unica frontiera è quella del giornalismo “embedded”, al seguito dei contingenti militari?
In venti anni, è cambiato il modo di fare giornalismo e di fare informazione. Non c’era Internet e già questa rappresenta una grandissima differenza tra “ieri” e “oggi”. Così come sono cambiati gli scenari geopolitici e militari. Non ne farei una questione ideologica, ma da valutare caso per caso, a seconda delle garanzie e delle tutele. Quando siamo andati in Somalia, la situazione era certamente più tranquilla rispetto al periodo in cui era andata Ilaria – c’era andata per ben 7 volte –, ma anche noi dovevamo verificare la presenza di tutta una serie di condizioni per ovvie ragioni di sicurezza, anche se da free lance.
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