“La strada delle ombre” di Mikel Santiago, thriller onirico nella Francia del sud
È stato un piacere intervistare Mikel Santiago, quasi quanto leggerlo. Spagnolo, classe 1976, un passato da rocker, viene scoperto grazie a dei racconti pubblicati online e lanciato nel mondo editoriale, grazie a una scrittura page-turner. La strada delle ombre è il suo primo romanzo ad arrivare in Italia, pubblicato dalla casa editrice Nord nella traduzione di Patrizia Spinato.
La strada delle ombre è una delle variazioni del tema della realtà come apparenza e interpretazione. Bert e Chucks (uno scrittore di successo e l’altro musicista rock in crisi esistenziale) sono amici da sempre. Quando Bert si trasferisce dall’Inghilterra in Provenza per cercare di recuperare il rapporto con la moglie e per salvare la figlia adolescente da certi brutti giri londinesi, Chucks li segue. Il precario equilibrio familiare raggiunto nel sud francese viene scosso violentemente: una notte Chucks investe un uomo sul ciglio di una strada, ma il giorno dopo il corpo non viene ritrovato. Sembra sparito nel nulla. È proprio così oppure si tratta dell’ennesimo delirio di Chucks? Quando anche Chucks scompare, comincia a essere chiaro che la tranquilla campagna francese non è solo il luogo di prosperità e benessere che i suoi abitanti ostentano; sarà Bert a dover indagare su questi misteri, mettendo in discussione tutto: la realtà dei fatti, le proprie dipendenze, la propria identità. Persino affetti più cari.
In un’intervista ha detto che tre dei suoi autori preferiti sono Patricia Highsmith, Alfred Hitchcock e Stephen King. Una frase per ciascuno di loro?
Patricia Highsmith è un’eccellente creatrice di tensione, una maestra nell’uso della violenza più irrazionale, meno programmata. È la persona che mi ha aperto la strada dell’uso della colpa in un romanzo e del gioco dei personaggi buoni e cattivi. Per quanto riguarda Alfred Hitchcock, adoro il suo modo di strutturare le storie; soprattutto i thriller, che iniziano con elemento di sorpresa che di solito suscita molta curiosità nello spettatore. Mi interessa come sviluppa l’intrigo e l’uso che fa della suspense come chiusura delle storie. In qualche modo, cerco di strutturare i miei libri come lui le sue trame. Per quanto riguarda Stephen King, penso sia un grandissimo narratore di persone “normali” che si immergono in situazioni straordinarie. Mi piace il suo modo di rappresentare i rapporti umani, familiari, amicali o delle piccole comunità.
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Nei ringraziamenti ha scritto che l’idea di questo libro le è arrivata guidando, di notte, in compagnia di un musicista. C’è stata la scintilla della creazione, ma poi è stato difficile costruire questa grande trama ricca di suspense?
In Spagna esiste questa classificazione che divide gli scrittori in scrittori “bussola” e scrittori “cartina”. Io mi considero più bussola. Questo significa che, rispetto al romanzo, inizialmente ho in mente più o meno i personaggi e i punti principali della storia, tuttavia lascio che la storia si evolva in autonomia. Ovvero, lascio che i personaggi si evolvano naturalmente, il che implica che io scriva molto e che torni indietro, per poi poter procedere. Molto spesso capita che il personaggio cambi personalità alla fine del libro, il che mi obbliga a tornare indietro. Oppure, alcune idee importanti mi vengono in mente a metà del libro. È molto laborioso scrivere così, ma penso che in questo modo il libro sia intriso da una sorta di inattesa magia.
La strada delle ombre è scritto in prima persona. La voce del protagonista è fondamentale. Bert gioca col lettore, lo chiama, guarda in camera, gli si rivolge direttamente. È in grado di parlare al lettore e allo stesso tempo di raccontare un romanzo d’azione. Questo doppio compito prende una strada interessante: la voce ci accompagna e ci fa capire, passo dopo passo, che la realtà è sempre passibile di letture e interpretazioni. È stato difficile trovare la voce di Bert?
Scrivere in prima persona mi viene spontaneo. Naturalmente, scrivere un thriller in prima persona implica delle palesi difficoltà tecniche, perché non si può andare oltre il personaggio per mostrare al lettore altre vicende. Per questo motivo, le mie storie si basano molto sull’intuizione dei personaggi. Sui messaggi dei sogni, sulle visioni. Su segni che vengono da una specie di “dio” che si trova al di sopra dello spazio della rappresentazione e che ogni tanto lascia cadere dei messaggi, affinché i lettori abbiano un po’ più di informazioni o per rafforzare le teorie che stanno creando nella loro mente. Ho dovuto mettere a punto una tecnica per far sì che il lavoro fosse anche di intrattenimento, di respiro pur trattandosi di un solo personaggio. Quindi da questo punto di vista, ho dovuto lavorare molto.
Sempre rispetto al personaggio di Bert: la sua storia è quella di un giovane autore sconosciuto e squattrinato, che diventa uno scrittore di successo, ma insonne e tormentato, completamente dipendente da droghe e farmaci. Immagino sia la storia di molti, però è difficile non pensare a quella che Stephen King racconta in On Writing…
Ci sono molti elementi che portano a Stephen King, a partire dal fatto che ad esempio anche King, in questo momento, scrive in una specie di capanno, per quanto ne sappia. La sua biografia è stata una sorta di piccolo copione per me, per creare il personaggio di Bert.
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In generale, sembra che molti dei suoi personaggi abbiano a che fare con il peso della vocazione e, d’altra parte, anche con quello dei loro demoni personali (e che le due cose siano legate). È la sua visione della condizione umana?
Quantomeno di quella dell’artista. Truman Capote una volta ha detto: «Dio mi ha dato un dono e un flagello. Credo che gli artisti vivano spesso questa condizione». Noi artisti basiamo gran parte della nostra identità sulla creatività. Ma la creatività va e viene e può trasformarsi in qualcosa di difficile e ossessivo. Qualunque lavoro creativo prevede un’altalena psicologica dove ci sono giorni di battaglie continue e giorni di tregua. In fondo, penso che questo possa valere a qualunque professione o mestiere.
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La musica gioca un ruolo importante per questo romanzo. È costantemente presente. Sempre in un’intervista ha detto che rispetto a questo uso della musica si è sentito come un dj nei confronti del lettore. Può spiegarci meglio questa dinamica?
Quando scrivo ascolto musica. Magari non proprio mentre sto redigendo il testo, ma durante l’intero processo creativo. Inoltre, la musica ispira certi elementi narrativi, scene, modi di raccontare la storia. Di fatto strutturo i miei libri come se si trattassero della scaletta di un concerto. Con un inizio molto promettente, uno sviluppo con alti e bassi e un finale spettacolare, pirotecnico. Si può dire che io abbia una visione “musicale” del libro e delle storie. Ed è naturale quindi che, qua e là, io lasci cadere dei suggerimenti. La stessa cosa che faccio con i miei amici, la faccio per i lettori.
In La strada delle ombre, una delle relazioni più significative è quella dei due amici, Bert e Chucks. Fra di loro c’è un tipo di vicinanza e solidarietà unico. Quando conta l’amicizia nella sua vita?
È un sentimento fondamentale, per me. I miei amici sono sempre stati una forma di ispirazione. Negli anni, ho scoperto quella forma di amicizia che si adegua ai cambiamenti della vita e della persona. L’amicizia tra Bert e Chuck è l’amicizia che spesso sogniamo: arrivati a quarant’anni avere ancora accanto un amico che abbiamo conosciuto nell’infanzia, cosa che può rappresentare una vera e propria sfida. Inoltre quello fra loro è anche un rapporto di fedeltà e fiducia. E il più grande mostro che troviamo in questa storia è proprio la mancanza di fiducia.
Lei ha vissuto in diversi Paesi. Vivere fuori dalla Spagna ha influenzato la sua scrittura? Ed è questo che le ha permesso di ambientare La strada delle ombre nella Francia del sud e il precedente in Irlanda?
Certo. È stato molto importante aver esplorato luoghi diversi e aver conosciuto persone di diverse origini e condizioni. La sensazione di un espatriato è quella di essere “fuori luogo” ovunque ci si trovi: non fa più parte del suo Paese di origine e, d’altra parte, non fa parte neanche del Paese che di volta in volta lo accoglie. È un po’ come galleggiare. È una sensazione che conosco molto bene perché l’ho vissuta e credo di riuscire a renderla nei miei personaggi, in questo caso Bert, che sente di non riuscire a integrarsi abbastanza in questa società nuova e arriva un momento in cui rinuncia a combattere e si limita ad andare a prendersi una birra con il suo migliore amico.
A un certo punto del romanzo leggiamo: «Me ne vado dai miei fantasmi, erano state le ultime parole di Chucks». Lei crede nei fantasmi?
Moltissimo. Non so fino a che punto si tratti di una fede vera e propria, ma quando mi trovo a casa mia o in altre situazioni, e vivo determinate situazioni, penso che ci siano dei fantasmi intorno a me. So che non dovrei dire queste cose in un’intervista. Ma in qualche modo ho questa visione del mondo e della vita per cui penso che tutto ciò che ci arriva non siano dei segnali casuali.
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Se un regista dovesse trasporre La strada delle ombre in un film, chi sarebbe? Vale qualsiasi nome, del presente o del passato.
Penso che questa storia sia molto “sensoriale”, una storia di atmosfera e molto soggettiva Gli eventi in sé non sono sufficienti per definire la storia. Ci sono i personaggi, le tracce, il linguaggio. Le atmosfere, appunto. Ci sono i sogni, che svolgono un ruolo fondamentale… Credo che, se qualcuno portasse su schermo il mio romanzo, dovrebbe essere un artista che va oltre i fatti, una personalità sottile e maestra nella padronanza di un linguaggio sottile, delle insinuazioni. Come poteva essere Stanley Kubrik.
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Le foto di Mikel Santiano sono di Asís G. Ayerbe.
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