La storia del ragazzino che sognava di far ridere gli altri
Entrare nella vita di Erich è come affondare le mani in un impasto, morbido, elastico, caldo. Una volta dentro, fa tenerezza Erich. Coinvolge.
In Che cosa c’è da ridere di Federico Baccomo, uscito per Mondadori, ci troviamo davanti a una storia nota – gli eventi accadono negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale – raccontata, però, da una prospettiva insolita. Erich ha un sogno. Far ridere gli altri. Non è un sogno nato dalla forza dell’esempio, a casa sua non si ride. È un sogno che germoglia dentro di lui, come un fiore che nasce perché il vento vi ha depositato il seme nelle terre feritili dell’essere.
Che sogno assurdo per un ragazzino, per i tempi che corrono, per un ebreo. Eppure, certe volte, è nei sogni che scopriamo la nostra vera natura, sia in quelli fatti a occhi aperti sia in quelli a occhi chiusi.
Del ridere, del modo in cui è nato il romanzo, degli ingredienti indispensabili per scatenare la risata, di Erich abbiamo parlato con Federico Baccomo.
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La storia di Erich che racconta in Che cosa c’è da ridere è una storia vera? Come nasce l’idea del libro?
Erich è un personaggio di fantasia, quel che gli sta intorno è invece sorprendentemente reale. Il cuore del romanzo, il luogo e il tempo verso cui convergono personaggi e dilemmi, è il campo di transito di Westerbork, da cui partivano ogni settimana lunghi convogli di deportati, destinazione Auschwitz. In questo campo avvenne qualcosa di eccezionale: un gruppo di artisti si trovò a rimandare la deportazione mettendo in scena numerosi spettacoli di cabaret per intrattenere carcerieri e compagni di prigionia. Dall’incontro di questa storia nelle lettere di Etty Hillesum è nato il desiderio di approfondirla, dall’immaginare Erich, il protagonista del romanzo, è nato il desiderio di scriverlo.
Ridere, dice a un certo punto, è una cosa strana. Di più, lungo la storia dell’umanità, ridere è stato considerato un comportamento disdicevole, frivolo. Perché si ride? Quali i benefici, secondo lei?
Perché si ride è la domanda che prima o poi tutti i filosofi si sono posti: ognuno ha dato la sua risposta, mai definitiva, tutti in qualche modo hanno illuminato un aspetto di questo comportamento così bizzarro, quella smorfia che ci deforma la faccia e ci fa sussultare senza controllo. Quel che è certo – dimostrato ormai dalla scienza – sono i numerosi benefici, persino a livello fisico, che traiamo da questa buffa azione. Quello che più di tutto mi interessava è la funzione di difesa della risata, una sorta di vanga che scava un fosso tra noi e un dolore, un fosso che subito si ricompone, ma, per un attimo, grazie a quella distanza, ci permette di respirare e tener viva la speranza di cancellare quel dolore.
L’ingrediente principale per ridere: la sorpresa. Solo così si spogliano le anime. La visione della risata come peccaminosa, come proibita, deriva dalla proibizione di spogliare l’anima. Di cosa si aveva paura, secondo lei, a ritrovarsi anime spoglie?
Lo diceva il buon Dostoevskij: è guardando al modo in cui ride, che si può conoscere davvero un uomo. La risata ha qualcosa di immediato, che spezza pudori e cautele, eppure non passa mai per il cuore, per l’emozione, nasce dal cervello, dalla consapevolezza di sé e del mondo. Per questo, per la sua capacità di levare le maschere, chiunque sia in grado di far ridere ha un potere, che spesso è confuso con il potere seduttivo ma è più simile all’abilità del borseggiatore: strappa qualcosa che non tutti sono disposti a farsi strappare.
Parla del ’29, parla della crisi, e dice che le persone avevano pensato che si potesse uscirne incattivendosi. Considera che la crisi che stiamo vivendo oggi può suscitare altrettanta cattiveria, come reazione? Oppure considera che le connotazioni siano molto cambiate?
La storia si agita ogni volta dentro confini molto differenti, sarebbe sciocco sovrapporre i confini di allora ad altri più antichi o moderni, eppure, nella complessità delle sue variabili, ce n’è una che rimane intatta, la più importante: l’animo umano. Il mondo di oggi è molto diverso da quello di un secolo fa, non è lo però l’uomo, che nelle difficoltà spesso corre incontro allo stesso orizzonte, composto di superstizione, aggressività e capri espiatori.
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Umorismo ed ebrei: come si spiega questa loro propensione verso l’umorismo, verso l’ironia e l’autoironia?
Credo che la sventura, la persecuzione, l’odio di cui sono stati vittime abbia acceso in loro, più che in altri, quel meraviglioso meccanismo di difesa e di riorganizzazione del reale che è l’umorismo. Forse c’è qualcosa di vero nel vecchio cliché del clown triste: solo chi conosce il dolore sa (ed è motivato a) darsi da fare per dominarlo, per costringerlo nei lacci di una risata.
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Per la prima foto, copyright: Nathan Van de Graaf su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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