La sofferenza per la morte di un fratello. “La morte bianca” di Eugenia Rico
La morte bianca è un romanzo della scrittrice spagnola Eugenia Rico tradotto da Sebastiano Gatti per Elliot. Scorrevole e denso, affronta il tema dell’amore fraterno attraverso la voce narrante di una donna che ha perso il proprio fratello, Germán Rodríguez Olvidado, di un anno più piccolo, morto annegato all’età di sedici anni. L’amore che lega sorella e fratello è proprio quel puro sentimento platonico raccontato con una prosa fotografica. Potrebbe sembrare un mémoir, eppure è qualcosa di più intimo e riflessivo. La voce narrante della sorella rivela il legame che l’ha unita al fratello e si lascia anche andare a riflessioni intorno al senso della vita. Gli affetti familiari, gli amori giovanili, il trascorrere di epoche, dai bisnonni ai nonni, ai genitori, sono dipinti con precisione e scioltezza. Brevi ritratti di un tempo passato che, sebbene facciano percepire una malinconia di cose che sarebbero potute avvenire e non sono mai state, non indugia mai nel vittimismo, o nella noiosa autoreferenzialità. La morte del ragazzo muta gli assetti familiari. E l’elaborazione del lutto si risolve in un tenace senso di colpa che la sorella prova, irrimediabile, anche come sensazione fisica: «Mi fa male come fanno male le membra amputate e io non posso riempirla con niente».
È un romanzo sulla scomparsa che però tiene intatta la forma e la forza di un corpo, quello del fratello: la bellezza, la fisicità apollinea è presente, come visione, negli oggetti appartenuti al defunto, e giustapposta alla bruttezza della sorella.
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Possiamo dire che proprio intorno all’elaborazione del lutto si dipanano le vicende della sorella che scrive spesso del fratello scomparso in termini di parte mancante:
«Mio fratello voleva lasciare un’impronta. Io sono la sua impronta», e avendo preferito vedersi morta lei, desiderio, questo, condiviso anche dalla famiglia. V’è, insomma, una sorta di celata accusa, inconsapevole forse, a quel maschilismo tipico mediterraneo che vede nel figlio maschio il preferito, colui che potrà continuare la linea famigliare. Ma l’elaborazione del lutto: ecco, c’è un primo momento di accusa e di colpevolizzazione nei confronti degli amici che avrebbero potuto salvarlo, ma anche nei propri riguardi, di sorella che in quel momento è stata assente; in seguito, però, il lutto elaborato porta a un dolore criptico, per riprendere le parole del filosofo italiano Mario Perniola: il dolore del lutto si cristallizza in una sorta di cripta, di rifugio, la persona colpita dal lutto smette di trattenere l’amore per il ricordo della persona amata e smette pure di colpevolizzare il mondo e sé stessa: «Mi sentivo colpevole di essere stata fortunata.»
La sofferenza si fissa, celata allo sguardo altrui, in una bolla di segreta purezza. Per tutto il libro si percepisce questa voglia di sospendere in brevi quadri il passaggio degli anni: «Mi aveva sempre affascinato la capacità di fermare un istante.»
La morte bianca è un titolo che si riferisce sia a quel tipo di morte che sopravviene in condizioni estreme di freddo, morte alla quale la protagonista sfugge per miracolo durante un’escursione nell’Himalaya indiano, ma anche il miglior modo di suicidarsi: «Camminare nella neve con una bottiglia di vodka e aspettare che il sonno metta fine a tutti gli incubi.» E la morte bianca è pure quella del fratello: «si portò via tutti i colori e ci lasciò il freddo che taglia le dita.» La breve vita del fratello è paragonata a quella di un romanzo di cui sia stato scritto solo il primo capitolo, e la scrittura è in fondo quell’ancora di salvezza che aiuta a sopportare la morte. È come se nella vita della protagonista ci fossero stati dei segni premonitori, degli indizi che, proprio come in un romanzo, hanno preconizzato la scomparsa del fratello, segnali nascosti nei discorsi intorno alla morte: una tragica fatalità o una «conseguenza dello sconforto»?
Ma le conseguenze della morte bianca, le dita congelate, il senso di avere gli arti amputati, ben rappresentano quell’altro blocco, della scrittura, delle dita che non possono più stringere le lettere intorno al foglio bianco, la superficie bianca. È ambivalente questo colore: lutto e rinascita: «Mio fratello mi spingeva a scrivere.» La morte è pure momento di resa, di sconfitta: «dopo la sua morte non fui più in grado di scrivere niente.»
La scrittura, più che la vita, è il contraltare della morte. E, allo stesso tempo, l’atto della scrittura, ambiguo, racconta l’impotenza di scrivere e la sua effimera gloria, pur conservando la possibilità della salvezza insita nelle parole: «Perché, alla fine dei conti, le parole sono l’unica medicina che abbiamo per la malattia chiamata Morte.»
La morte bianca ci restituisce un’atmosfera tipicamente spagnola in garbate pennellate e ci lascia in bocca un lieve gusto di malinconia, sicuramente, ma pure questa sorta di nebbia non oscura la visione delle cose. È forse, oltre che poetico, un approccio filosofico quello della scrittrice e pare rispondere al quesito e al timore che più angoscia e disturba l’essere umano: la fine di tutto. Parlarne è l’unica risposta, prendere coscienza dell’effimero che siamo, sembra dirci Eugenia Rico con le parole in esergo di Sartre, implica la conquista delle cose più oscure.
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Il libro è dedicato al fratello Alfredo, ma anche ai propri genitori, «E a te cara lettrice. A te caro lettore», e si chiude in modo quasi circolare, riprendendo il motivo iniziale: «alla fine del cammino ho le stesse domande e continuo a non avere le risposte.»
In fondo un romanzo, come la vita, ci pone sempre delle domande senza risposta: nonostante finisca, ci compulsa ad andare avanti, stimola il desiderio: «appena un momento, un istante dopo aver chiuso il libro, riprendere il viaggio, tacere per sempre.»
Per la prima foto, copyright: Joshua Clay su Unsplash.
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