La scrittura come ribellione. “Lettera al padre” di Franz Kafka
Nel 1919, a quattro anni di distanza dalla pubblicazione di Die Verwandlung (La Metamorfosi), lo scrittore praghese Franz Kafka si dedica alla stesura di Brief an den Vater, pubblicata nella traduzione italiana di A. Rho nel 1959, con il titolo Lettera al padre. Lo scritto, meno risonante dei racconti e romanzi di Kafka, in gran parte editi alla sua morte, confessa l’origine di quella condizione esistenziale che molti intellettuali del XX secolo avrebbero definito “kafkiana”.
Scrivendo di sé al padre, Franz si ricorda bambino inerme, adolescente oppositore, adulto giudice di un rapporto paterno decostruttivo, doloroso, contraddittorio. C’è tutto un peregrinare rapido di immagini sardoniche nella memoria familiare del figlio che la penna tinteggia tra le pagine di questa lettera non per esorcizzare il male ma per restituirlo, senza troppe cortesie:
«Ma per me bambino tutto quel che mi gridavi era un ordine del cielo, non lo dimenticavo mai, rimaneva per me lo strumento più importante per giudicare il mondo e, soprattutto, per giudicare te stesso: e qui fallivi completamente. Poiché da bambino stavo con te soprattutto durante i pasti, le tue lezioni erano in massima parte lezioni su come ci si comporta a tavola. Quel che si metteva in tavola doveva essere mangiato, sulla bontà del cibo non si discuteva; ma tu spesso lo trovavi immangiabile, lo chiamavi “mangime” e affermavi che la “bestia” (la cuoca) l’aveva rovinato. […] Gli ossi non si potevano rosicchiare, ma tu lo facevi; l’aceto non si poteva sorbire, ma tu lo facevi. La cosa più importante era tagliare il pane diritto; che tu però lo facessi con un coltello grondante di sugo era indifferente. Si doveva fare attenzione a non lasciare cadere avanzi di cibo sul pavimento; di solito erano tutti sotto di te.»
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E se il fanciullo percepiva l’assurdo, l’adulto, divenuto scrittore e a quel fanciullo indissolubilmente unito, avrebbe portato le parole del padre incoerente fin dentro le sue creature immaginate quanto vissute, rendendole futuri archetipi letterari:
«Questo valeva per i pensieri come per le persone. Bastava che io nutrissi un po’ d’interesse per qualcuno… che tu, senza riguardo alcuno per i miei sentimenti e senza rispettare il mio giudizio, attaccavi con gli insulti, le calunnie, le umiliazioni. Dovevano pagare le spese persone innocenti e infantili, come l’attore jiddisch Löwy. Senza conoscerlo, lo paragonasti in un modo orribile, che ho già dimenticato, a uno scarafaggio…».
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Dimenticato per volontà di uomo sensibile ma probabilmente non cancellato dalla memoria di scrittore poiché lo troviamo, quello scarafaggio, trasfigurato in Gregor Samsa di La metamorfosi, già prima di questa confessione in cui rimbomba un legame paterno malato che scopriamo conflittuale in ogni anfratto della Lettera e che lascia intravedere l’origine della motivazione alla scrittura come denuncia, sfogo o forse riavvicinamento a tutte le parole taciute:
«L’impossibilità di un rapporto tranquillo ha avuto un’altra conseguenza, davvero molto naturale: ho disimparato a parlare. Non sarei comunque divenuto un grande oratore, ma avrei senz’altro dominato il linguaggio umano, abitualmente fluente. Tu cominciasti però assai presto a togliermi la parola, la tua minaccia: “Non una parola di replica!” e la relativa mano alzata mi accompagnano da sempre. Davanti a te mi veniva – tu sei, per quel che riguarda le tue cose, un oratore eccellente – una parlata incespicante e balbuziente; anche questo era troppo per te, e alla fine tacqui, dapprima forse per orgoglio e poi perché davanti a te non sapevo né pensare né parlare.».
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Piegato davanti al padre, Kafka ritorna a lui, attraverso la scrittura, per ricordargli quanto la sua “educazione” lo abbia reso penosamente docile, ammutolito, nascosto alla vita: «la tua mano e il mio materiale erano così diversi l’uno dall’altro». Eppure su quel varco di comunicazione la mente di Franz lavora con l’aiuto dell’ironia per non inscatolare i fatti dentro di sé ma per leggerli pubblicamente, ancora una volta, con tutto il dolore che arrecano:
«Era per me una festa della cattiveria, del piacere per il male altrui, quando quasi a ogni pasto di lei (la sorella Elli) si diceva: “A dieci metri dal tavolo deve stare seduta, quella grassona”;… Quante volte questa e simili scene hanno dovuto ripetersi, quanto poco in effetti hai ottenuto con esse. […] Divenni un bimbo scontroso, disattento, disobbediente, sempre intento a fuggire, per lo più dentro di me. Così soffrivi tu e soffrivamo noi. […] Fortunatamente c’erano anche eccezioni, soprattutto quando tu soffrivi in silenzio e amore e bontà… Era raro, purtroppo, ma meraviglioso.». Ad esempio quando il padre si addormentava a causa della stanchezza, riverso sullo scrittoio del negozio di articoli di abbigliamento che gestiva, o quando si reggeva alla libreria di casa tremante di pianto per la moglie ammalata, o quando «durante la mia ultima malattia ti sei avvicinato pian piano a me, nella camera di Ottla, sei rimasto sulla soglia allungando soltanto il collo per vedermi nel letto, e per riguardo ti sei limitato a salutarmi con la mano. In tali occasioni ci si coricava e si piangeva di felicità, e si piange anche ora che si scrive.».
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Questi atteggiamenti contraddittori del padre inoculano nel figlio sfiducia e uno «sconfinato senso di colpa» che Kafka circoscrive e controlla grazie alla decisione di prendere le distanze da lui come «il verme che, calpestato sulla coda da un piede, la abbandona e si trascina di lato con la parte anteriore». Un legame che strozza l’autostima dello scrittore ma che non annienta la passione verso la scrittura, nonostante quel saluto paterno all’arrivo delle sue pubblicazioni: «Mettilo sul comodino!».
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Non stupisce che molte delle opere dello scrittore siano giunte a noi incompiute; tra queste Il processo, Il castello eAmerica. La volontà di Franz si ferma alla loro composizione. Oggi infatti ci è concesso leggerle grazie all’amico giornalista Max Brod che le pubblica postume nonostante il desiderio del loro autore di distruggerle tutte.
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Per la seconda foto, l’autore è Jan Hladík e la fonte è Wikipedia.
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