La realtà come antidoto. “A tutto c’è rimedio” di Helen Phillips
«Ci sono persone che desiderano sapere, e altre che non lo desiderano», così comincia I conoscitori, il primo racconto della raccolta: A tutto c’è rimedio di Helen Phillips (Safarà Editore, tradotto da Cristina Pascotto e Alice Intelisano), anche autrice dell’opera And Yet They Were Happy, nominata tra le migliori raccolte del 2011 da The Story Prize, e de La bella burocrate (Safarà Editore), tra i migliori romanzi del 2016 del «New York Times», vincitrice del Rona Jaffe Foundation Writer’s Award, dell’Italo Calvino Prize in Fabulist Fiction, The Iowa Review Nonfiction Award e del Diagram Innovative Fiction Award.
La raccolta contiene diciotto racconti ma è in questa frase che sembra racchiuso il senso dell’intera opera. Con A tutto c’è rimedio, Phillips ci sta invitando a entrare nel suo mondo. Confortati dalla sua guida e da quel lieto fine già annunciato nel titolo, ci affacciamo su questo universo ambiguo, lontano, strano, popolato da personaggi scossi dalle più bizzarre e profonde inquietudini come il conoscere la data della propria morte, l’innamorarsi di un partner robotico o l’imbattersi in numerose neomamme sosia. Quello che ci presenta Phillips è un mondo nel quale il lettore entra lentamente, come in un sogno, incuriosito da quell’aria sempre più fitta e rarefatta, con la costante sensazione di star compiendo un viaggio necessario quanto esistenziale.
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Un mondo che per fortuna all’inizio sembra molto distante dal nostro, ma le cose non sono come appaiono. A ben guardare, man mano che l’aria si infittisce, ci si rende conto che si è persa la strada di casa e quel luogo e i suoi personaggi sono un po’ come gli alieni descritti in Congiunti, diversi dagli umani solo per i contorni un po’ sfocati. È così che quella realtà disorientante e i suoi personaggi sembrano, a un tratto, preoccupantemente simili a noi.
È allora forse che si inizia a riflettere dentro i racconti e con i personaggi. Infatti: conoscere la data della propria morte è tanto diverso da festeggiare il proprio compleanno? Avere la capacità di vedere l’interno di un corpo, con le sue fasce muscolari e le sue ossa, è tanto diverso da ricordare che siamo esseri fragili, umani, mortali? Serve davvero che il tempo si fermi per farci ricordare che gli altri sono vulnerabili quanto noi?
Perché allora il collegamento non è immediato? Perché quel mondo dalle cupe e distopiche atmosfere è tanto conturbante da farci pensare, a una prima lettura, che le idee dell’autrice siano originali e lontane dal nostro mondo e da noi?
Forse il merito di Helen Phillips è allora nella piena consapevolezza del proprio ruolo; nella piena consapevolezza che vicino a qualcuno che sceglie di sapere è inevitabile che altri prendano coscienza. E forse allora la differenza è tutta lì, se si è conoscitori o meno.
«Ci sono persone che desiderano sapere, e altre che non lo desiderano. All’inizio Tem mi prendeva in giro con quella sua aria di sufficienza […] se rivendicavo di appartenere ai primi; quando si rese conto che lo volevo davvero iniziò a preoccuparsi […].
«Perché?», mi chiese tra le lacrime nel cuore della notte. Non potevo rispondere. Non avevo una risposta.
«Non riguarda solo te, lo sai» disse. «Coinvolge anche me […]». Commossa, strinsi la sua mano nell’oscurità. Con riluttanza, ricambiò la mia stretta. Avrei preferito essere come Tem, certo che lo avrei voluto! Se solo avessi saputo che era possibile sapere, e tuttavia accettare l’ignoranza».
Come il filo di Arianna, l’incipit de I conoscitori ci accompagna nella lettura degli altri racconti e ci porta a riflettere sui sentimenti, sui pensieri e sulle pulsioni che spesso diamo per scontato e che abbiamo catalogato in tutta fretta sotto l’etichetta: banale, normale.
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E contro questa veloce operazione l’autrice ci mette in guardia: le certezze nascondono un veleno paralizzante. Phillips ci fornisce un antidoto, un rimedio, come ci tranquillizza nel titolo, adatto a ogni persona e a ogni situazione, sia che si scelga di sapere o meno. Tuttavia questi racconti ci fanno riflettere sulla realtà, sulla tendenza che abbiamo di abbellirla. È così che si spiegano le storie surreali che i personaggi vivono, frutto di una mente che si chiede che cosa accadrebbe se guardassimo la realtà per ciò che è, se, per esempio, ci ricordassimo che la pelle è solo un rivestimento e che sotto di essa ci sono fasce muscolari e ossa; se ammettessimo che abbiamo preferito credere a una menzogna e tenerci all’oscuro della verità; se capissimo che siamo infelici perché abbiamo barattato l’autenticità per la comodità.
«Eva fece un passo indietro per ammirarli, quel gruppetto di esseri umani immobili, ognuno dei quali aveva attraversato la vita per giungere a quella tavola. Ognuno di loro si era sentito non amato e solo e stupido e goffo e colpevole e ansioso e inadeguato, ognuno di loro si svegliava il mattino e faceva cose, cercava di prendere le decisioni giuste, si lavava i denti e cercava di non vergognarsi di se stesso, si inorgogliva dei propri piccoli traguardi e si sforzava di parlare con autorevolezza di uno o due argomenti. Quanto vulnerabili apparivano ora, intrappolati nei loro gesti più umili, quanto patetici, quanto cari! Si sorprese dolorosamente consapevole dei loro scheletri, del fatto che appena al di sotto della loro pelle si trovavano tendini e intestini e altre cose ripugnanti. Le amava queste persone ‒ la lattuga incastrata tra i denti di uno, la sfilata di brufoli sulla fronte dell’altro, la macchia su una maglietta, gli orli sfilacciati».
Forse, come ci suggerisce e ci esorta a fare Phillips con A tutto c’è rimedio, se vedessimo le nostre debolezze, la nostra fragilità, se capissimo che tutti cerchiamo solo di sopravvivere, riusciremmo ad amare e ad amarci.
Per la prima foto, copyright: Marc-Olivier Jodoin su Unsplash.
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