La profondità del crime per raccontare i mali della società. Intervista a Ilaria Tuti
Ilaria Tuti, giunta al successo fin dal suo primo libro, Fiori sopra l’inferno, è sulla buona strada per fare bis, grazie a Ninfa dormiente, da poco pubblicato sempre da Longanesi, come il precedente.
Gli ingredienti ci sono tutti: una storia che prende, l’amato Friuli con le atmosfere a metà tra il paesaggio amato e la natura matrigna, un crime in grado di aprirsi alla riflessione su temi sociali importanti e una detective, Teresa, che si conferma in grado di catturare il lettore con le sue fragilità.
Di tutto questo abbiamo parlato con Ilaria Tuti nella nostra intervista.
Da IoScrittore al grande successo di pubblico con Fiori sopra l’inferno. Con quale animo ha affrontato questa seconda prova di scrittura?
Il primo romanzo è un’avventura che vivi quasi con incoscienza, perché non ti aspetti nulla di quello che verrà, nel bene e nel male. L’inesperienza, in un certo senso, ti salva dall’avere aspettative che potrebbero creare ansia.
Ninfa dormienteè stata un’esperienza psicologicamente più impegnativa. Non per la ricerca di un secondo successo, ma perché ho sentito da subito un forte senso di responsabilità nei confronti dei lettori e dei librai che mi avevano dato fiducia con Fiori sopra l’inferno. Sentivo di avere fatto una promessa e di doverla mantenere. Ero abbastanza sicura della storia – perché era quella giusta per me, mi era entrata nel cuore, ed era giusta anche per Teresa Battaglia, la mia protagonista. Ho avuto, invece, molti dubbi sulla mia scrittura. L’ho messa in discussione a ogni riga, ho riflettuto su ogni parola. Volevo migliorare, ne sentivo il bisogno. Di certo ho ancora molto lavoro da fare su me stessa, ma posso dire di avere dato tutto quello che potevo e questo mi fa sentire serena.
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La protagonista di entrambi i suoi romanzi è Teresa Battaglia che Donato Carrisi ha definito «più di una protagonista: è una luce piena di ombre, uno spazio dentro il nostro cuore.» E per lei chi è Teresa Battaglia?
Teresa è mille donne dentro a un personaggio. Donne normali, che s’incontrano ogni giorno: è un commissario di polizia quasi sessantenne, sovrappeso, malata di diabete e poco attraente, che vive sola e non ha un carattere domo. Teresa, però, è anche una professionista di grande esperienza, una leader naturale, una donna compassionevole, una mente curiosa e inquieta. Il personaggio di Teresa è una dichiarazione d’amore a tutte le donne, quelle che magari sopportano il peso della solitudine, che hanno sperimentato la violenza, che devono scendere a patti ogni giorno con un corpo che cambia e magari anche con la malattia, affinché non smettano mai di volersi bene. È la bellezza, a volte davvero epica, della normalità.
«Teresa pensa spesso alla morte. Ma non avrebbe mai immaginato che la propria sarebbe stata così. C’è qualcosa di beffardo nel fatto di non riuscire a ricordare ciò che potrebbe salvarla.» Inizia così Ninfa dormiente ed entriamo subito nel vivo di una delle difficoltà che lei pone sulla strada di Teresa. Per quali ragioni ha scelto di raccontare anche imperfezioni così critiche per un’investigatrice come Teresa?
Più amiamo i nostri personaggi, più li mettiamo davanti a sfide gigantesche, per vedere come le affronteranno. È un modo per delineare la loro grandezza per contrapposizione: sono le scelte che facciamo davanti a un bivio a definirci, non le parole che adoperiamo razionalmente per spiegarci agli altri. La forza di Teresa è sapersi mettere in gioco a un’età in cui non è scontato, è svegliarsi ogni mattina più stanca e comunque dedicarsi a un lavoro che per lei è una vocazione. È scegliere di essere madre delle vittime quanto dei carnefici, perché la compassione non ha direzione. Questa capacità di sentire il dolore dell’altro affonda le radici nel passato di questa donna, nelle violenze subite, nel peso delle imperfezioni: tutte scalfitture che donano profondità al suo sentire. Teresa parte come un personaggio “sbagliato”, difettoso, eppure alla fine vince: grazie all’esperienza, alla conoscenza, alla capacità di affidarsi all’intuito quando la ragione non basta.
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Il thriller ha delle caratteristiche ben precise. Come ha interagito con queste e quali margini di libertà è riuscita a ritagliarsi per i suoi libri?
Una delle mie maggiori preoccupazioni, durante la stesura dei due romanzi, era quella di non riconoscere, in alcune parti, nulla delle caratteristiche del thriller. Mi sono presa libertà consistenti rispetto alle “regole” del genere (nella prosa a tratti poetica, nello spazio concesso largamente ai sentimenti più intimi dei personaggi e alla descrizione della natura), ma non avrei potuto scrivere in altro modo: è rischioso, ma è il mio. Posso limarlo, devo perfezionarlo, ma non posso trasformarlo in qualcosa che non mi apparterebbe.
Alla fine, il plot del crime è una scusa per parlare di molto altro: condizione femminile, violenza domestica, infanzia tradita dagli adulti, difficoltà e aspirazioni delle piccole comunità, solidarietà umana, malattia…
Cinque anni per arrivare a Ninfa dormiente. Quanto tempo ha occupato la fase di ricerca e quanto invece quella di scrittura? Quanti e quali cambiamenti ha subito il romanzo nel corso di questi cinque anni?
La scrittura vera e propria è durata quasi un anno e mezzo, la fase di ricerca molto più: circa quattro anni di incontri, letture, chiacchiere, ricerche. Mi sono serviti per raccogliere un patrimonio inestimabile di ricordi, testimonianze, tradizioni e suggestioni che alla fine sono confluiti in Ninfa dormiente, una storia in cui la verità ha un peso maggiore della finzione. Quattro anni anche di riflessioni e di prese di distanza da questa storia, per la quale non mi sentivo ancora pronta. Sono state pause silenziose che sono servite per far sedimentare le emozioni, farle depositate sul fondo della mia fantasia, dove hanno attecchito.
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Dei suoi romanzi colpisce molto l’ambientazione, da Travenì alla Val Resia, fatta soprattutto di boschi e monti con la natura che assume quasi delle caratteristiche di mistero. Cosa l’ha spinta verso questa scelta? È solo un fatto biografico o ci sono altre ragioni?
È stata una scelta naturale. All’epoca non ero ancora un’autrice, ma sapevo già che il Friuli sarebbe stato un personaggio delle mie storie. Volevo scrivere di ciò che conosco, ma con lo sguardo e la meraviglia di quando ero bambina. Il senso di appartenenza alla mia terra, il profondo rispetto per ciò che era ed è – terra di fatica, di sentimenti solidi – mi hanno spinto a non relegare questi luoghi a semplice scenario, ma a dargli un significato simbolico ben più profondo. La natura, la foresta soprattutto, è il simbolo della vita, con i suoi misteri, le ombre nerissime e le luci abbaglianti. Madre e matrigna allo stesso tempo, è il luogo primordiale dal quale tutti noi proveniamo. Ci ha accolto, ci ha protetto. Questo è scritto nel nostro DNA, è seppellito nell’inconscio: ecco perché le suggestioni che smuove dentro di noi sono potentissime.
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Per la prima foto, copyright: Federico Bottos su Unsplash.
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