La poesia come grido. “Dolore minimo” di Giovanna Cristina Vivinetto
Puntata n. 36 della rubrica La bellezza nascosta
«L’altra nascita portò con sé la distanza degli alberi – la verde solitudine dei tronchi. A noi parve – per così tanto tempo – di non toccarci mai, mai raggiungerci – per quanto ci protendessimo l’uno fra i rami dell’altra […] ci vollero diciannove anni per prepararsi alla rinascita, per trasformare la distanza tra noi in spazio vitale, il vuoto in pieno, il dolore in malinconia – che altro non è che amore imperfetto.»
Siamo il nostro corpo, siamo sicuramente la nostra carne, le ossa, siamo gli organi che ci muovono dentro; camminiamo con il ritmo che ci impongono le pulsazioni cardiache, respiriamo e parliamo stando attenti al comando della gabbia toracica e della gola. Siamo il nostro corpo, ma non solo: possediamo varchi immensi, voragini grandi che vengono riempite dalle emozioni; siamo una voce che ci parla dall’interno, due voci, un movimento che parte dallo stomaco e con una contrazione diventa paura o tristezza o forse rabbia.
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Siamo soprattutto quello che non si vede, piccoli spostamenti interiori che ci possono dare un brivido o un attimo di felicità; e poi, può accadere, che ci si scopra estranei, che ci si senta stranieri in quel paesaggio di carne e pelle che è il nostro corpo, quel riflesso nello specchio. E quindi, forse, il nostro aspetto esteriore è solo la punta di un iceberg, che da lontano magari nemmeno si vede bene; tutto quello che non si vede, molto spesso, resta oscuro anche per noi, ma poi magari un giorno, nella grotta gonfia di tenebra, troviamo un fiammifero, lo accendiamo, e la lucina, debole ed enigmatica, ci apre la porta di qualcosa che non credevamo nemmeno di possedere.
Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994, la raccolta di poesie Dolore minimo è stata pubblicata dalla casa editrice Interlinea.
Queste poesie sono un viaggio, un cammino interno ed esterno che la nostra poetessa ci mostra come fossero, nel loro insieme, una mappa emotiva, una cartina fatta di strade e sentieri e boschi e case, una cartina densa, piena di rabbie e tristezze, piena di attimi sereni e momenti che colano terrore.
«Noi eravamo fra quelli chiamati contro natura. Il nostro esistere ribaltava e distorceva le leggi del creato. Ma come potevamo noi, rigogliosi nei nostri corpi adolescenti, essere uno scarto, il difetto di una natura che non tiene? Ci convinsero, ci persuasero all’autonegazione. Noi, così giovani, fummo costretti a riabilitare i nostri corpi, obbligati a guardare in faccia la nostra natura e sopprimerla con un’altra. A dirci che potevamo essere chi non volevamo, chi non eravamo. Noi gli unici essere innocenti. Gli ultimi esseri viventi, noi, trapiantati nel mondo dei morti per sopravvivere.»
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Ogni pagina possiede livelli di buio e di luce, ogni riga sembra poterci tagliare, graffiare, entrarci nella pancia come un pugno; Vivinetto non ci risparmia nulla del suo percorso, mettendoci davanti alla faccia tutto quello che ha pensato e che, magari, ha fatto uscire dalla gola, bruciandosela.
E ci sono luoghi, in questa raccolta, che fanno soffocare, che ti violentano i muscoli; posti oscuri in cui la nostra poetessa tenta di mettere luce, riuscendoci con una delicatezza importante.
«Col tempo divenni nient’altro che un pallido riflesso di quel che ero. Lei, la Natura, si era appropriata di tutto: ogni cosa ormai iniziava a portare il suo nome. Il suo muto inganno. Fui poi rinnegato, ridotto al vuoto. Poco a poco, vidi scivolarmi davanti le ore, i volti, le strade. pensai che era meglio agire quando ancora potevo. Stare allora nel corpo era come indugiare in una stanza in cui non si può restare.»
L’intero libro è un grido, è come una voce che per troppo tempo ha dovuto trattenersi, che dopo aver raccolto tutta la forza e tutto il fiato esplode come una stella, rendendo il lettore partecipe e complice. La penna di Giovanna Cristina Vivinetto è gentile a tratti, precisa, pulita; come fosse un bisturi che recide senza lasciare margini di errore.
«Il corpo transessuale è un ritorno al feto e alla pancia. Un salto all’indietro verso la confusione acquorea delle forme del buio imprecisato della madre. Chiamatemi bambina, chiamatemi creatura risucchiata nel grembo e rinata. Abortita in eterno. Chiamatemi adulta due volte per queste mani che hanno mutato sensibilità. Per questa carne che del gioco ha svelato l’inganno e le catene che non si vedono…»
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Quindi la vita è spesso come una stanza, mura nelle quali siamo capitati senza che ci chiedessero il permesso, senza avere la possibilità di scegliere la mobilia, gli oggetti, il colore delle pareti. Ci hanno mesi dentro una stanza, e ci hanno detto cosa essere e come esserlo.
Ma c’è chi non accetta l’ordine, chi non accondiscende a una Natura che forse di naturale possiede solo dei dogmi. E allora, in quella stanza, con le unghie, ci si apre un varco, si scava nel muro, si suda, si sanguina e ci si maledice, e poi, con abnegazione è costanza, si riesce nella fuga, e una volta fuori, l’aria è diversa, il cielo ferreo pesa meno e finalmente, scegliere diventa elemento naturale, le catene di una costrizione atavica svaniscono.
Per la prima foto, copyright: Morgan Basham.
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