La poesia che ci rende vulnerabili. “Anatomie della luce” di Mariasole Ariot
Puntata n. 27 della rubrica La bellezza nascosta
«Il risveglio è dato dalle mancanze. La spina dorsale è vita prosciugata sotto la pelle, dove o quando l’inaffondabile affonda. Scorre un sangue come fosse una frase nella gola, di bocca in bocca ascolto ripetizioni umane come fossero tracce di bestioline morte: un inverno con le zampe, un pesce senza sonno, un sordo avanzare di iene senza testa. Bussano nel cranio riposte fucilate dall’alto: Che non c’è un inizio né una fiume di un fiume, che di giorno le folaghe urlano e di notte le folaghe brillano…»
Ci abitano sotto la pelle, le ossessioni; ci vivono dentro, facendosi spazio tra i muscoli della schiena e i resti del corpo, tra la stretta forte intorno al cranio e le macchie rossastre sopra un braccio. Il risveglio dal sonno, i secondi di attesa per recuperare la realtà, per capire quanto saldamente possiamo contare su qualcosa di tangibile; quegli attimi di confusione, quando la tua camera è straniera, quando le tue mani non sono tue e la tua mente proietta immagini estranee formando altri tipi di enigmi; quando aprire gli occhi è un significato archetipo di qualcosa che forse ha smesso di appartenerci. E poi la luce, che cade a fiotti spaccando tavole di tenebre, luce che a volte disturba, violenta i nostri occhi abituati al buio, accasati nei colori scuri di giorni consumati e infettati dai nostri stati di allucinazione. Alcuni di noi sono costretti ad abitare in un mondo straniante, dove le coordinate non esistono e dove le percezioni distorte del reale diventano chiodi che si incastrano sotto i nostri piedi, passo dopo passo.
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Mariasole Ariot è nata a Vicenza nel 1981, è uno dei caporedattori del portale letterario Nazione Indiana e la casa editrice Nino Aragno Editore ha pubblicato la sua raccolta di poesie Anatomie della luce.
Ci ritroviamo in 28 giorni, e ogni giorno è accompagnato da un’immagine e ogni immagine è il riflesso fedele, o forse no, di un cumulo di parole. Mariasole ci lega mani e piedi e ci conduce all’interno di un universo onirico; all’interno della raccolta c’è un filo conduttore, visibile appena, frasi che rappresentano una narrazione che si discosta leggermente dalle poesie, anche esse riconducibili a un unico tema. Luoghi densi di buio, immagini come incubi, paesaggi morenti, dissociati, freddi; tempi che non coincidono mai e che affondano e ci fanno affondare.
La scrittura di Mariasole Ariot è sorprendente, densa, potente; ogni frase è scolpita, ogni frase pesa di sofferenza e di poesia; l’autrice sembra aver preso le singole lettere e averle incollate alle altre con una sapienza di linguaggio estremamente rara. Parlare di narrazione poetica, parlare di allucinazioni vivide come secchiate d’acqua gelida sulla faccia, è questo che fa Mariasole Ariot.
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«Ci vuole un tempo lungo per creare uno strazio, e tuttavia ci ostiniamo a lavorare senza distrazione, con una destinazione ben precisa: un campo nero al di là del prato, che non fa promontorio né ombra sulle radici. Da questo bosco ripido tracciamo i resti di una porta, è un autunno piovoso, una prefica al posto del cielo. La donna dice: ho sentito l’urlo dei gabbiani. Il vecchio risponde: cadi. Ancora, dopo millenni, la città si addormenta con un grido, nei campi minati crescono bambini senza corazza…»
Ogni pagina sembra un quadro, le righe come sassate, le poesie ci colpiscono, rendendoci vulnerabili, rendendoci privi di difese; il gioco che fa la Ariot è un po’ il gioco che fa il mondo, ci scuote, ci ribalta, ci risveglia dal torpore per poi provare a tagliarci, a illividirci la pelle, a soffocarci. E se c’è una speranza, un bagliore, potrebbe essere solo il riflesso, un’eco, di qualcosa che ha smesso di appartenerci.
«Ditele la fame, ditele che la bocca è il centro della testa, ditele che se piange è per pudore, ditele lo sputo, ditele che il cielo senza occhi non ha ragione, ditele che una parola è matura quando è grave, ditele che grido, ditele che hanno forato il cranio con un punteruolo, ditele che passano le voci, ditele che non passa, ditele che i bambini hanno lo sguardo torvo, ditele che non guardo, ditele che le maglie della terra sono strette, ditele che non usciamo, ditele che usciremo, ditele che l’uomo ha una gabbia sulla testa…»
Diteci che non è sempre un errore, diteci che il bene che diamo ci viene restituito, prima o poi; diteci che il freddo passa e che l’anestesia emozionale conosce un finale; diteci che non si muore ogni giorno, che gli incubi possono restare nel sonno senza inquinarci le immagini del mondo; diteci che la vita può pesare meno, che la colla che ci tiene le braccia al suolo prima o poi molla la presa.
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Tutto sempre dentro di noi, tutto perennemente confinato nel cervello, ogni spostamento sempre pieno di quello che siamo stati, perché la nostra storia è come un alfabeto, è il principio e la fine, è il pozzo dal quale siamo costretti a prendere acqua quando la sete non ci lascia scampo. Abbiamo rivoluzioni che ci lacerano lo stomaco e grandi visioni di posti che non conosciamo ma che abbiamo abitato; e possediamo interrogativi grandi quanto il mostro che si muove intono alle nostre ossa, e ci parla, e ci dice cose; voci, scenari, crolli, destinazioni, e poi, siamo costretti a nascere troppe volte per una sola vita.
Per la prima foto, copyright: Annie Spratt.
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