La letteratura nella società dei senza trauma
Come reagisce la letteratura alla società dei senza trauma? Se, come direbbe De Sanctis, la letteratura è la «sintesi organica dell’anima e del pensiero di un popolo», come rappresenta un mondo che si serve del trauma per riscattare l’esperienza requisita dai pixel dei nuovi media?
Secondo Pascal, l’io era il più detestabile dei pronomi. Oggi sembra essere il più amato, dal momento in cui la letteratura pare non poterne proprio fare a meno. Negli ultimi anni, difatti, sono esplose le cosiddette scritture dell’io, che, limitandoci alla sola narrativa, variano dai romanzi in prima persona ai romanzi autobiografici, dalle autobiografie all’autofiction. Cos’hanno in comune queste scritture? Il valore dell’esperienza. Tutte cercano di riportare su carta un’esperienza il più delle volte estremamente intensa, raccontata da un io testimone/soggetto che vi ha preso parte. La letteratura, nell’epoca della crisi dell’esperienza, fa proprio di quest’ultima la base fondante sulla quale immergere tutta la carica soggettiva – e perciò parziale – del pronome io.
Come abbiamo visto, congedare la forte tendenza alla ricerca dell’esperienza, e del trauma che ne consegue, come un semplice impulso autoreferenziale o come mero moltiplicatore di like nella società della cultura dei selfie sarebbe superficiale e ingiusto. Il fenomeno indubbiamente esiste e intacca le giunture anche della stessa letteratura, soprattutto quella più commerciale, che tuttavia ora non tratteremo – non è un caso che nelle innumerevoli biografie o autobiografie di personaggi pubblici (e quante ce ne sono negli scaffali di “letteratura”?) si racconti di come il successo e la ricchezza siano arrivati sempre in seguito ad un trauma di vita che quindi li giustifica, allontanando gli oramai tanto diffusi sensi di colpa per vivere in una dimensione di privilegio (oppure, peggio ancora, capita che non si ammetta di esserlo in nome del trauma sofferto). Quello a cui assistiamo è un qualcosa di più profondo, ossia un vero e proprio ritorno al reale.
La realtà – il mondo effettuale –, dopo il manierismo e l’elusività del postmoderno che sembrava voler richiamarla per giochi di specchi e strizzate d’occhio, si è rimessa al centro del discorso. Si è fatta di nuovo pesante, consistente, indagabile, presente. Tanto da essere imprescindibile. Si intende la realtà come campo d’esperienza e, a sottolinearne la consistenza, si usa la prima persona singolare come presenza. E c’è tanta fame di storie vere da produrne delle false – si pensi all’esplosione del fenomeno dello storytelling; il ritorno al reale «potrebbe essere anzitutto l’esca dell’autoriconoscimento e dell’identificazione: non rivela “l’âpre-verité”, ma il soddisfacimento dei bisogni di una soggettività debole e avvilita che, vedendo rappresentato il proprio mondo, cerca un riscatto» (R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, ed. Il Mulino, 2014).
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Chi meglio di Saviano, autore della tanto discussa autofiction Gomorra, può aiutare a capire questo meccanismo? Nel libro afferma: «Io so e ho le prove. […] Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio». L’«io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» pasoliniano – quindi un io intellettuale che capisce, esamina, analizza e mette insieme i pezzi in base all’istinto del mestiere – diventa ora un io so, io ho visto, io c’ero, io sono quello che ha vissuto, che ha fatto esperienza e lo dico, perché ho il diritto e il dovere di raccontare. Eppure tutti sappiamo che Saviano non c’era. Ha impastato articoli di giornale, dati noti, materiale vario per tirarne fuori un libro. Non ha vissuto veramente quel che dice. Ma allora può parlare? La letteratura è il campo delle possibilità, non dell’avvenuto; è davvero importante sapere se Saviano c’era o non c’era? Chi mai si chiederebbe se Madame Bovary sia esistita o no? La letteratura non si basa su ciò che è vero e ciò che non è vero, ma indaga le strutture profonde dell’uomo portando alla luce meccanismi universali.
Come direbbe Barthes (ne Il grado zero della scrittura), la scrittura è immersa nella Storia. Saviano, figlio di un’epoca storica invasa dall’espansione della prima persona, porta alla luce il meccanismo universale dell’io e lo fa passare per un’esperienza traumatica reale – la mafia, cosa c’è di più reale, ahimè? Parla la lingua del suo tempo. Detto fuori dai denti: se Eco, per parlare del clima dell’Italia del suo tempo, si mette a raccontare – tra richiami allusivi e toccatine di gomiti postmoderne – una storia di frati del ‘300 invischiati in un convento maledetto, Saviano, per parlare dell’Italia mafiosa di oggi, si fa lui stesso personaggio e ci si butta dentro fino al collo – tanto da subirne reazioni effettive, come le realissime minacce di morte ricevute dalla malavita. Il risultato se si vuole non cambia, in entrambi i casi si hanno due intellettuali che si interrogano sul proprio tempo; quel che cambia è il modo. Un modo, quello di Saviano, a presa diretta e perciò più emotivo, buttando «la scrittura in un attivismo civile che non ammette zone riservate o separazioni» (R. Donnarumma).
Dal Lago ha accusato lo scrittore campano di essersi ingiustamente messo nei panni dell’eroe, autoproclamandosi come paladino del Bene nella lotta con il Male. Forse c’è dell’altro: quel che spinge Saviano a dire io è la tendenza sintomatica della società odierna, in cui il valore delle cose sta nell’idea forte di esperienza personale e attuale. La costruzione dell’io letterario testimoniale diventa l’invenzione, il cavallo di Troia per penetrare le mura inaccessibili dell’esperienza e riportarne il cadavere putrido su carta. Èun io che non si ferma davanti agli specchi dell’apparenza per rimirarsi compiaciuto – l’io letterario è anzi spesso fragile, frammentato e mostra i suoi limiti – bensì li infrange e infila la testa nelle acque torbide del mondo, altrimenti coperte dal limpido schermo delle immagini. Fa il lavoro sporco per il lettore. Smuove le belle piastrelle di pixel per affondare le mani nel fango del rimosso. È una letteratura dalle mani sudice, lontana dai raffinati giochi linguistici del postmoderno. Frasi corte, ritmo calzante, la forza del racconto non sta nel velluto delle parole, ma negli strappi del vissuto. «L’io sarà anche costruzione spesso menzognera, ma che anche le menzogne, a spingerle sino al loro fondo, senza sconti, ci dicono chi siamo» (R. Donnarumma). C’è chi, con l’avvento dei nuovi media, ha parlato di morte della letteratura. Eppure, nella società dei senza traumi si è aperto uno spazio concreto di azione e, forse, mai come ora ne abbiamo avuto bisogno.
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