La forza di rigenerare se stessi. “Febbre” di Jonathan Bazzi
Marius, iub, che poi è iubire, amore in romeno, attese interminabili davanti a un telefono che non squilla e un padre che non verrà nemmeno questa volta.
Febbre, il romanzo d’esordio di Jonathan Bazzi, uscito per Fandango, mi ha colpito a livello personale con una serie di elementi che mescolano il mio mondo al suo, sebbene la sua storia non sia la mia. E questo, al di là dell’autofiction, dell’autobiografia o qualsiasi altra urgenza di definizione, è letteratura.
Jonathan, Jonny, Pam, da piccolo, vive a Rozzano, nelle case popolari. È il risultato di una relazione fragile, sbagliata, puerile tra la madre, diciottenne, e il padre, donnaiolo incurabile. Lei, la mamma, Concetta, è la ragazza più bella, ma si spegne dopo il parto, diventa un’ombra, il simulacro di se stessa. Lui, il marito, ha altre relazioni. A tratti, sembra afflitto da satiriasi. Fa sempre commenti sulle donne, su cosa farebbe loro, su quanto siano porche. Tutte. Senza distinzioni.
È una relazione che dura poco, dopo tre anni Concetta lascia il padre di Jonathan, anzi, lo butta fuori di casa e lui si trasferisce da Rozzano a Milano 3 in una casa e in una vita in cui l’apparire è un obiettivo primario. Di mestiere fa il poliziotto, non guadagna quanto spende e, per certi viaggi, per far contento il piccolo Jonathan, prende i risparmi del bambino per portarlo in vacanza. Lo desiderava molto, è la scusa; una tra le tante, che fa imbestialire la madre.
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L’infanzia, i primi nove anni, Jonathan li passa dai nonni materni. Lei, la nonna, è una donna del sud, profondamente legata alle tradizioni ancestrali delle sue terre. Un modello di famiglia adottato anche dal nonno materno, un uomo burbero, egocentrico, autoritario. Non è facile restare in equilibrio in mezzo a un mare così burrascoso, ma Jonathan in qualche modo galleggia, respira, sopravvive.
Studia. Studia tantissimo. Studia così tanto che alle medie, quando ormai è tornato a vivere a casa con la madre, la prof di inglese, una distinta signora che insegna a Rozzano ma vive a Milano, insiste che vada a studiare in una scuola più adatta alle sue capacità. È sprecato tra gli scarti indisciplinati della città, in mezzo ai problemi di tossicodipendenza, di stupri minorili, di negligenza nei confronti dei figli.
A stare in mezzo ai ragazzi perbene, delle famiglie perbene, con mammine vestite di tutto punto che attendono i pargoli a fine giornata, ci si sente degli intrusi, specie se ci si aggiunge in cammino. Devi dimostrare di meritarti il posto, l’attenzione, l’amicizia. E non è facile. Sei da solo, senza alleati, soffocato dalla piccola realtà che ti porti dietro. A Rozzano, Jonathan era uno dei tanti ragazzi con difficoltà famigliari alle spalle, ma aveva un’arma da piccolo supereroe per distinguersi, per auto-salvarsi. Studiare. Anche lui aveva problemi, ma non era come loro.
A Milano 3 è lo sfigato. Inizia a odiare la scuola, a non andarci, a sfuggirla, a volerla lasciare. La zattera che lo ha sempre salvato lo sta ora trascinando in mezzo alla tempesta e non c’è sublime kantiano che regga le onde minacciose. Lo trascina in mezzo alle sue paure. Ai suoi limiti. Come la balbuzie.
È un lettore accanito, l’esercizio non gli manca ma, quando deve leggere a voce alta, la mente non riesce più a decodificare i segni in suoni. Resta muto oppure, se proferisce parola, è una parola spezzata da pause infinite.
Tutti questi, però, rimangono problemi minori, aneddoti, contorni da aggiungere alla propria biografia. Il vero problema, quello per cui raccontarsi diventa un’esigenza, un gesto di apertura, di onestà e anche di coraggio, è la febbre. Jonathan, nel 2016, passa diverse settimane a inzupparsi di sudore tutte le notti e ad avere la febbre sui 37.5 quasi tutti i giorni. Non è un raffreddore, non è la mononucleosi e nemmeno un altro batterio da debellare con vitamine, riposo e antibiotico.
È un virus. Un virus che fa paura all’Occidente dagli anni Ottanta e morde indisturbato l’intera Africa da decenni. Un virus che stigmatizza, crea distanze, barriere, terrore, complottisti, negazionisti. È un virus di cui si sa poco e quel poco che si sa è una massa nebulosa e confusa.
Jonathan, gli dice l’infettivologo, ha contratto l’HIV.
Non si sa quando, come, da chi. Di certo non l’ha preso dal suo compagno, Marius, e non glielo ha nemmeno trasmesso. E, in fin dei conti, a cosa serve sapere quando, come, da chi. Ce l’ha e ora deve fare i conti con questo.
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A leggere Febbre, il cui stile è fresco, sperimentale, piacevole, ci si trova davanti al compimento di una metafora. Un po’ come le salamandre che, dopo una ferita, una mutilazione, si rigenerano incuranti del fatto che ci sia il rischio che quel nuovo arto possa essere doppio o potente. Ed è il compimento di una metafora, perché oltrepassa l’immediato di un virus, di un’infanzia difficile, di un’esistenza complicata. Jonathan non rinasce, ma si rigenera. Fa esattamente quello che abbiamo bisogno di fare tutti noi, davanti alle nostre ferite profonde. Rigenerarci, come le salamandre, come Jonathan.
Per la prima foto, copyright: Noah Silliman su Unsplash.
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