“La fortezza della solitudine” di Jonathan Lethem
Immaginate gli anni Settanta, a Brooklyn. Immaginate di essere bianco, negli anni Settanta a Brooklyn. Immaginate un sottofondo di musica funk, hip hop, r’n’b – Play that funky music. La fortezza della solitudine (trad. di Gianni Pannofino, Net editore, 2007) è tutto questo. La fortezza della solitudine è anche Dean Street, è il luogo in cui Dylan Ebdus può essere se stesso; un luogo insieme fisico e spirituale, rifugio contro la brutalità dell’esistenza, baluardo dell’infanzia, dell’ultimo ricordo della madre, dell’amicizia con Mingus Rude. Dylan e Mingus, uno bianco e uno nero: due ragazzi senza madre cresciuti dalla strada e dalle sue leggi.
Jonathan Lethem ripercorre, in questo libro parzialmente autobiografico, la storia di un intero quartiere – Boerum Hill – dagli anni Settanta agli anni Novanta, diviso tra le sue radici sociali e la progressiva gentrificazione. Nella Brooklyn disegnata da Lethem, il sostrato culturale assume un ruolo centrale per la definizione dell’identità dei personaggi. La musica rappresenta il segno di appartenenza a un determinato gruppo sociale: le melodie funk, i distici roboanti del rap, da una parte, e il punk-rock, dall’altra. È una musica che nasce dalla strada, «con le voci uscite dal ghetto e dalle periferie, dalle scuole e dai cortili». Allo stesso modo, i fumetti della DC Comics e della Marvel diventano simbolo di un’intera generazione: le uscite in edicola del martedì, i numeri speciali, «Mingus Rude ne aveva sempre delle pigne, comprati o rubati, Dylan non faceva domande». Ancora, i graffiti ricoprono una funzione identitaria creando, attraverso le tag, un dizionario metropolitano di personalità parallele. Attraverso le grafie distorte dai marker e dalle bombolette spray, Dylan cerca di confondere e unificare il proprio nominativo grafico con quello di Mingus «nell’illusione che lui e il suo amico Mingus Rude siano entrambi Dose, né più né meno. Una squadra, un fronte unito, un marchio, un’idea». Perfino la droga rispecchia uno status.
Nasce, così, un romanzo urbano, nel quale si stagliano i temi della tensione razziale, della scoperta di se stessi, del rapporto con la figura paterna, di un’amicizia intima e leale; la black music e Rapper’s Delight in testa alle classifiche mondiali, i primi writer, droghe e supereroi e un anello magico a dare l’illusione del volo e dell’invisibilità: l’illusione, in verità, di poter trasformare la propria inadeguatezza in qualcosa di speciale e segreto, ma pur sempre in modo ironico.
Poi, la fuga di Dylan: un viaggio geografico e mentale da Brooklyn a Berkeley, dove avrebbe dimenticato la sua identità come il più patetico dei supereroi. Nei luoghi vuoti e privi di significato della California – quasi non-luoghi semantici – vive sopraffatto da quella stessa infanzia che cerca di fuggire allontanandosi nel tempo e nello spazio. Immerso nel passato, senza mai volerlo veramente distruggere, ma cieco e ignaro, abbandona Dean Street per farvi ritorno negli anni Novanta. Nell’estenuante ricerca di un proprio posto nel mondo, Dylan si ritrova a casa, in quel cemento solido che raccoglie la memoria indelebile delle sue origini, ma in un’altra epoca, un’altra generazione, un’altra storia: Dylan e Mingus, uno bianco e uno nero, un affermato giornalista musicale e un ex spacciatore, cresciuti a Brooklyn.
Un malinconico tributo a una via, a un quartiere e a quello che furono: roccaforti urbane e interiori.
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