La crisi e le sue possibilità
Spesso la procedura migliore per affrontare un tema dal titolo complesso è quello di partire dall’etimologia delle parole che lo compongono. In questo caso Rappresentare la Crisi. Stando alle ricostruzioni di Ottorino Pianigiani, il primo dei due lemmi proviene dal latino ed è un termine composto da re più praesens, ovvero «rendere presente agli occhi della mente cose o fatti». Il secondo vocabolo possiede, invece, maggiori sfaccettature: crisi è, infatti, un vocabolo di origine greca (krisis) e può significare «momento che separa una maniera d’essere o una serie di fenomeni da un’altra», oppure «subitaneo cangiamento in bene o in male» oppure ancora «stato anormale e pericoloso di un Paese agitato da guerre civili» e infine «sospensione della regolarità del movimento di scambio che costituisce il commercio». Si passa dunque, come non di rado accade, da alcune definizioni di carattere neutro che denotano nella crisi il semplice momento di passaggio tra un prima e un dopo a definizioni più marcate in senso negativo che individuano, invece, nella crisi, un’alterazione pericolosa o irregolare. “Rappresentare la crisi” significa dunque, letteralmente, porre di fonte (agli occhi della mente) questo stato di mutamento repentino. È chiaro che la maniera neutra o negativa con cui il termine crisi viene percepito risulterà determinante. In ogni caso, “crisi” rappresenta (il gioco di parole non è casuale) un momento di passaggio, una variazione improvvisa; da questo dipende l’aspetto destabilizzante. Essa rompe l’abitudine e la routine, spezza la progressione lineare e consueta degli eventi. Ci costringe a un riallineamento, a un riassestamento, alla riformulazione del nostro pensiero. Rappresentare la crisi può significare, quindi, due cose: raccontare (mostrare) questo processo e le sue conseguenze in modo palese, oppure produrlo (ri-produrlo) in modo nascosto, forse addirittura inconscio. Da questa differenza prendiamo le mosse.
Tornando, però, un attimo alla nostra distinzione tra accezione negativa e neutra del termine, da essa dipende il nostro approccio nei confronti dello stato di “crisi” e da essa dipende la nostra comprensione di esso. È un fatto culturale oltre che storico. È chiaro pertanto che, in anni recenti, la parola “crisi” non può che rappresentare il più nefasto degli eventi. Essa ha monopolizzato in modo quasi aggressivo ogni nostro gesto, ha occupato la nostra mente, ha saturato l’immaginario collettivo. Nel primo decennio del XXI secolo, la parola non può che rappresentare lo stato di guerriglia urbana e civile, la lotta sociale, legata a motivazioni di origine economica. Ci hanno insegnato che il mercato è l’unica legge che governa le nostre vite e che, di conseguenza, una flessione improvvisa di quest’ultimo può deformarle quasi interamente. Non capiamo perché. E il motivo per cui non lo capiamo è che non esiste alcun perché, non c’è motivazione. La rappresentazione odierna della crisi ruota attorno allo stato di depauperamento monetario, ideologico, civile, lavorativo, totale. La crisi è l’incubo che tormenta le nostre notti. Ma è anche un momento difficile che richiede il nostro sacrificio per essere superato. Questo scenario è quello che in questa sede ci interessa meno. Troppo facilone, troppo superficiale, troppo brutale. E soprattutto, troppo inflazionato.
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In fondo, di crisi si parla energicamente ormai da oltre un secolo. O forse da molti secoli. Vale sempre la domanda “ma quand’è che l’umanità non è stata in crisi?”. La storia, il progresso stesso, anche senza voler scomodare l’impianto hegeliano dello spirito, non sono altro che un susseguirsi di stati di crisi, intesa prima di tutto in senso neutro e, quindi, come passaggio e cambiamento, come mutazione. Anche la vita umana non è altro che un susseguirsi di trasformazioni e crisi; fino all’ultimo transito, il più preoccupante perché ci proietta verso l’ignoto. La crisi non è, dunque, che un passaggio obbligato e inevitabile, uno stadio da smaltire, o più semplicemente da attraversare. Ciò che va fatto in ogni momento di crisi è coglierne la natura, osservare i frammenti, prenderne coscienza, farne esperienza, evitando di attribuirle un giudizio di valore. Anche il sistema feudale è passato attraverso una crisi, così come l’ancien regime, ma non possiamo certo considerarli fatti nefasti. Anche il comunismo ha vissuto una crisi, ma in Germania dell’Est, per esempio, sono davvero in pochi a rammaricarsene.
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