"L'ultimo respiro del drago", Qiu Xiaolong racconta l'inquinamento cinese
L'ultimo respiro del drago (Marsilio, 2018 – traduzione di Fabio Zucchella) è l'undicesimo romanzo che Qiu Xiaolong, il celebre giallista cinese trasferitosi negli Stati Uniti nel 1989 dopo la rivolta di piazza Tienanmen, costruisce intorno al personaggio dell'ispettore Chen Cao, poliziotto di Shangai amante della poesia e del buon cibo, membro fedele del Partito comunista ma, al tempo stesso, osservatore critico delle storture della dittatura.
Questa volta Chen si trova alle prese con due indagini in contemporanea: una serie di delitti inspiegabili, senza collegamenti e senza moventi, scuote la città di Shangai, allarmando i vertici della polizia che non possono rischiare la brutta figura di lasciarli insoluti proprio alla vigilia dell'Assemblea Nazionale del Popolo, ma al tempo stessoil segretario Zhao, pezzo grosso del governo di Pechino, chiede a Chen di indagare in modo discreto su un gruppo di ambientalisti, impegnati a realizzare un allarmante documentario sull'inquinamento ambientale, che potrebbe diventare un'arma contro il governo centrale.
Muovendosi quindi nell'aria irrespirabile di Shangai, Chen deve in primo luogo evitare di farsi coinvolgere troppo dal fatto che tra gli ambientalisti c'è una sua ex fidanzata, di cui aveva perso le tracce dopo che lei aveva sposato un uomo ricco e potente, e che l'ispettore vorrebbe in qualche modo proteggere, ma deve anche aiutare i colleghi a trovare un filo che colleghi i misteriosi delitti.
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Quello ambientale è un tema molto delicato per il governo cinese, stretto tra i guasti prodotti da una crescita industriale tumultuosa e fin troppo veloce e l'aumento esponenziale di malattie fra la popolazione, a causa degli altissimi livelli di inquinamento dell'aria e dell'acqua, il cui costo sociale è sempre meno sostenibile.
Ancora una volta, quindi, attraverso lo sguardo disincantato del suo ispettore, Qiu Xiaolong ci racconta le numerose contraddizioni della Cina contemporanea: noi gli abbiamo fatto qualche domanda nella tappa milanese del suo breve tour italiano.
L'inquinamento ambientale è il tema centrale del romanzo. Se ne parla tanto, eppure i governi appaiono sempre restii ad adottare delle misure drastiche per combatterlo, mentre spiccano politici come Trump che negano addirittura il problema. Qual è la situazione attuale in Cina?
La situazione è molto seria, l'inquinamento cresce da anni e non è certo un problema recente, ma sebbene coinvolga tutto il mondo, in Cina c'è una forte differenza: in America, anche se Trump non vuole affrontare il problema, ci sono comunque altri che ne parlano e ne discutono, dai politici ai giornali, mentre in Cina c'è un partito unico che controlla tutti i media, per cui non esiste un serio dibattito in merito. C'è chi cerca di affrontare il problema in qualche discussione in rete, ma chi lo fa subisce delle conseguenze. Io stesso, in uno dei miei romanzi precedenti, Le lacrime del lago Tai, mi sono ispirato per un personaggio a un ambientalista realmente esistente, che è finito in carcere per qualche anno. Anche l'attivista protagonista di quest'ultimo romanzo s'ispira a una donna reale, che ha girato un documentario sull'inquinamento a sue spese mettendolo online, ma dopo pochi giorni è stato oscurato ed è ormai inaccessibile.
Lei vive da molto tempo negli Stati Uniti, ma non ha mai reciso del tutto i rapporti con la Cina, dove tra l'altro i suoi romanzi vengono pubblicati con molti tagli. Dal suo punto di vista esterno, quanto è cambiato il paese da quando lei se n'è andato?
Dal punto di vista economico la Cina è cambiata moltissimo. Ho lasciato Shangai nel 1988 e allora non esisteva ancora la linea metropolitana. Quando ci sono tornato l'anno scorso ne ho trovate quindici. Da giovane vivevo in uno dei tipici edifici di Shangai, molto affollati, in cui si condividevano un sacco di cose e non c'erano neppure i bagni, mentre adesso non so più quante centinaia di appartamenti sono stati costruiti in pochi anni.
Molti intellettuali sono sempre stati convinti che i cambiamenti economici vengano accompagnati da quelli politici, mentre questo non è successo in Cina: l'economia è cambiata drasticamente, ma il sistema politico è sempre lo stesso, direi anzi che negli ultimi anni è peggiorato.
Una delle prime riforme di Deng Xiaoping consisteva nel fissare un termine di due mandati per il capo dello Stato, mentre adesso il capo può restare senza alcun limite, per cui si è tornati ai tempi di Mao. Il controllo politico è sempre più stretto: i colossi della rete sono bloccati, esiste una versione cinese di WhatsApp che però è molto controllata. Sei mesi fa ho postato un articolo sul poeta irlandese Yeats, che non conteneva riferimenti alla Cina, eppure è stato considerato politicamente non corretto ed è stato oscurato. Chi posta contenuti politici rischia sempre di essere invitato a "bere una tazza di té" in qualche commissariato, l'eufemismo usato per le convocazioni della polizia.
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Pensando al futuro della Cina, soprattutto riguardo alle nuove generazioni, lei si sente ottimista o pessimista?
Per il lungo termine nutro ancora delle speranze, ma non ho questa convinzione per il breve periodo, perché non penso che ci possano essere grandi cambiamenti, se non in peggio.
In questo momento il genere thriller va molto forte, almeno qui in Europa, però si sta affermando un tipo di thriller più impegnato, con tanti riferimenti alla politica o all'attualità, come del resto troviamo anche nei suoi romanzi. È questo arricchimento che determina il successo del genere?
Sì, penso di sì, perché i miei romanzi non si basano solo sulla classica ricerca di un colpevole ma contengono temi sociali, politici e culturali. Per me è molto importante esplorare le circostanze che stanno alla base e intorno al crimine.
Oggi mi sento un privilegiato rispetto ai miei colleghi cinesi, che si trovano in una posizione molto difficile. In Cina chi vuole scrivere thriller deve ambientarli in mondi fantascientifici e con elementi soprannaturali, per non affrontare la realtà. E poi ci sono i cliché obbligatori: i giapponesi sono sempre cattivi, i comunisti sempre buoni e hanno sempre ragione. Io scrivo in inglese e non ho problemi con la censura americana, per cui posso spaziare nel sociale e nel politico.
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Dopo sette romanzi qual è il suo rapporto personale con l'ispettore Chen: ci convive bene oppure a volte lo trova invadente? Non ha occupato uno spazio troppo grande nella sua vita?
Effettivamente Chen prende molto spazio nella mia vita, tanto che mia moglie spesso si lamenta. Però, considerando tutto quello che succede in Cina, penso che rimarrà con me ancora per un po'.
È comunque un personaggio in evoluzione: all'inizio della serie era molto più ottimista e idealista, vedeva i problemi cinesi ma era convinto che si stesse andando nella giusta direzione per risolverli.
Negli ultimi libri, invece, è più disilluso e soprattutto si trova spesso in pericolo di vita. Nel nuovo libro che sto scrivendo ora, che riguarda la storia di un giudice, Chen deve abbandonare il suo status di poliziotto e fare delle indagini di nascosto, spacciandosi per scrittore.
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Ha altri progetti narrativi oltre a questa serie?
Sì, ho già scritto due volumi, Il vicolo della polvere rossa (Marsilio, 2013 – traduzione di Fabio Zucchella) e il suo seguito: il mio progetto è quello di scrivere una storia della Cina moderna attraverso dei racconti, dedicando una storia a ogni anno dal 1949 fino a oggi, vale a dire settanta storie. Questo perché in Cina i testi scolastici sono pieni di lacune, mentre tutti dovrebbero conoscere cos'è veramente successo in passato.
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Per la prima foto, copyright: Ralf Leineweber on Unsplash.
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