L’ossessione di dare forma all’informe. “Ferdydurke” di Witold Gombrowicz
Prosegue, saggiamente indefessa e indefettibile la ripubblicazione delle opere di Witold Gombrowicz ad opera del Saggiatore: alla nostra ossessione di lettori, di questi tempi, offre Ferdydurke, curata dal polonista Francesco M. Cataluccio e tradotta da Irene Salvatori e da Michele Mari, che apre anche le danze con una prefazione dalla quale emergono nettamente i nuclei tematici su cui si è voluto insistere nella resa in italiano, tanto dei significati, quanto dei significanti.
Oltre a contenere una mordente satira contro il mondo della scuola e dell’accademia; oltre alla parodia del perbenismo e dell’affettazione paternalistica degli atteggiamenti così detti adulti; oltre allo slancio con cui Gombrowicz si slancia rilanciando tanto contro il modernismo spicciolo, quanto i vecchiumi dell’antico regime, Ferdydurke si focalizza sullo scontro titanico tra immaturità e maturità, tra il «monello», «malinconico schiavo del verde» e l’adulto, realizzato, tronfio e gonfio dello sprezzo per chi è ancora incompleto o soltanto giovane.
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La voce narrante, martellante ed ecolalica, si impone in modo talmente pregnante da lasciare una traccia lampante ed evidente nel ricevente leggente: appartiene a un trentenne, che di notte sogna un se stesso adolescente e al risveglio si ritrova, grazie alle attenzioni del professor Pimko, nel cortile di un liceo.
Compreso nella «verditudine» di colui che ama i germogli e i cespugli verdeggianti, «spinto dal desiderio anacronistico e sconveniente di colpire il naso del professore con una pallina di carta», asservito all’incompiuto, Giuso – questo il suo nome – inizia, però, a notare quanto l’immaturità possa essere tanto esibita dai ragazzi quanto «coltivata e sollecitata dal corpo docente in nome dell’innocenza ma prima ancora in nome della propria identità» poiché «solo in opposizione all’immaturo […] il maturo potrà sapersi tale» (cito dall’illuminante saggio su Gombrowicz nella raccolta I demoni e la pasta sfoglia, di Michele Mari, il Saggiatore, p. 138).
In mezzo a quella ridda di scolari allo stato brado, più o meno proclivi alla violenza e all’individualismo, Giuso diventa, pur non volendo, il personaggio di una «grottesca farsa» nella quale Gombrowicz, attraverso le voci degli adolescenti, dà il miglior sfoggio del proprio forsennato e tumultuante funambolismo linguistico, tra un compiaciuto latinorum maccheronico e goliardico e il ricorso a neologismi sempre sulla china dell’osceno e dello scatologico, il tutto proferito secondo i moduli d’una sintassi degna degli antichi poeti.
Giuso si sofferma anche sul contenuto dei loro discorsi, notando come«l’argomento preferito dei più giovani» fossero «gli organi genitali e quello dei più grandicelli le storie di sesso. […] Sembravano bloccati dentro qualcosa, come confitti in uno sbaglio, mal collocati nello spazio e nel tempo». Questa regressione si cristallizza nell’utilizzo di un termine, che – variamente rimodellato, giustapposto, composto, suffissato – marca la sua presenza in tutto lo sdipanarsi del delirio di Giuso e del mondo pazzo che lo attornia («culetto», «culame», «culemme», «culezio», «culambio», «culastico», «culenza», «culergia», «culòmero», «culandro», «cucullo», «culollo», «culestro», «culassa», «culòstrato», «culòstrega», «culime», «culettico», «culémene», fino al «culèssere e via discorrendo).
Da un diverbio tra due scolari, Mentino, «volgare individuo» dal parlare impudico che aveva appena inciso la parolaccia di quattro lettere nel tronco della quercia nel cortile, e Sifone, un ragazzotto preda dell’ingenuità generale si determina un altro dei temi portanti del romanzo, saldamente intrecciato a quello del conflitto tra maturità e immaturità: la capacità da parte dell’Altro di plasmare a piacimento e rideterminare instancabilmente la nostra esistenza, a suon di violenze: fisiche, verbali, psicologiche.
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L’infanzia e la adolescenza, pare, sono una zuffa sanguinosa, una «mischia corporea» rumorosa, incessante e sempre agognata, che porta a continue spersonalizzazioni, riduzioni e diminuzioni, come quando si è annichiliti e sfolgorano «le stelline negli occhi»: vista così, la piega della scrittura di Gombrowicz a questo punto della narrazione sembrerebbe un ininterrotto inno alla distruzione, ma c’è un quid che la trasforma, ed è una sete mai appagata di regole sicure e di rassicuranti razionalizzazioni; di allestire tanto la «gerarchia delle sofferenze» quanto «la gerarchia dei pensieri»; di commentare i fatti «analiticamente, sinteticamente e filosoficamente».
Seguiamo Gombrowicz, con Giuso, Mentino e compagni, nell’ossessione della lotta per dare, sia essa «culìgono» o somma arte, forma all’informe.
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