L’importanza di esercitarsi al distacco. Intervista a Mary B. Tolusso
«Tutti hanno vissuto ore fatte di una felicità assoluta, alla quale non si dovrebbe sopravvivere.» Inizia così L’esercizio del distacco, romanzo di Mary B. Tolusso, edito da Bollati Boringhieri e che sarà presentato oggi alle 18.30 presso lo Spazio Eventi del Salone del Libro di Torino.
Tre amici, Emma, David e la protagonista che funge anche da narratrice, un collegio, l’amore e l’amicizia, la vita che incombe, un bosco sono al centro di una storia che, sullo sfondo di Trieste, città mai nominata in tutto il libro, fa del confine e del distacco quasi due protagonisti sui quali non possiamo che interrogarci anche dopo la fine del romanzo.
E proprio da questo abbiamo voluto iniziare la nostra chiacchierata con Mary B. Tolusso, che dopo Torino sarà impegna, tra gli altri eventi, il 18 maggio al Festival Città del Libro di Urbino e il 24 maggio al Circolo dei lettori di Torino.
Comincerei dal titolo che è molto evocativo. Perché il distacco è un esercizio?
Perché è faticoso, ma talvolta necessario, basti pensare a quante volte siamo costretti a dire addio alle persone che amiamo. Credo quindi sia raccomandabile un “esercizio”, un’educazione a riguardo. È una difesa che non implica cinismo, a meno che non lo esercitiamo come la marchesa de Merteuil, il famoso personaggio di Laclos. Per il resto ipotizzo che “esercitarsi” a difenderci da un’emotività che potrebbe andare fuori controllo sia indispensabile. Siamo umani. Abbiamo paura.
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L’incipit del romanzo è insieme molto efficace perché contiene in sé il nucleo centrale del romanzo ma al contempo anche tanto duro: «Tutti hanno vissuto ore fatte di una felicità assoluta, alla quale non si dovrebbe sopravvivere.» Cos’è la felicità assoluta?
È una felicità che esiste nella nostra mente, come ogni assoluto, ed è assolutamente ideale: ogni felicità, nell’intensità del ricordo, diventa vera. Non so dire se esiste al presente, ma la memoria ogni tanto ci restituisce l’idea che sia esistita, e quando accade abbiamo l’impressione che non potrà replicarsi. D’altra parte è un assoluto alimentato dall’immaginario collettivo, in genere ci viene detto che la vera felicità sta nelle piccole cose. Personalmente credo che la felicità stia nelle cose elementari, che sono uniche per principio e niente affatto “piccole”: la stessa adesione alla vita che ci cattura nell’adolescenza a mio avviso non corrisponde a una piccola cosa. Ma questo lo si avvertirà da adulti, e nell’esperienza, come pure nel ricordo, la sensazione di quel tipo di prensilità alla vita sarà tutt’altro che piccola. Nel frattempo, tuttavia, veniamo educati alla moderazione, un po’ come nella mia storia.
Il romanzo è ambientato all’interno di un collegio e narra le relazioni tra Emma, David e la protagonista narratrice. Cosa vuol dire per dei ragazzi esplorare la propria vita affettiva in un ambiente chiuso e totalmente votato all’ordine e alle regole?
Vuol dire vedere il mondo scivolare via da una finestra. A quindici, sedici anni siamo protesi all’esterno, gli amici, la scuola, i primi amori, tutto in genere si consuma al di fuori della famiglia o del nucleo di origine. Essere obbligati a un ambiente, con dei codici precisi, ti costringe a trovare degli espedienti, a meno che non accetti passivamente le regole imposte. Ho vissuto in un collegio e per indole non ne accettavo le regole, avevo bisogno di trasgredire e questo non era privo di conseguenze. Chi appunto da giovane vive questi contesti forse riceve un imprinting che implica anche l’esplorazione della vita affettiva, al punto che legare l’affetto alla trasgressione delle regole diventa un’associazione naturale. Non hai la libertà di uscire quando vuoi, non puoi, per esempio, incontrare ciò che per te in quel momento rappresenta il sentimento, che diventa qualcosa da conquistare al di fuori dei vincoli imposti. Impari certo a distaccartene, ma anche a prendertelo, se ne hai il coraggio. Ricordo una notte, avevo quattordici anni e molta voglia di vedere mia madre. Sono scappata. Si scappava per andare a casa. Qualcuno fuggiva anche per incontrare il proprio ragazzo o per vedere un film: io stessa, per esempio, ero fuggita pure per vedere Il tempo delle mele. Non rispettare i codici diventa il modo per conquistare l’amore. Ci sono tutti gli ingredienti per diventare dei banditi, se c’è naturalmente della predisposizione.
Uno dei temi del libro mi sembra l’esplorazione del confine, da quello che separa l’essere bambini dall’età adulta fino al confine che separa il collegio dalla vita esterna e a quello geografico che si trova nel bosco… Quanto può essere utile riflettere su un argomento come questo? E quanti danni invece può fare il restare al di qua del proprio confine?
Questo è un tema preciso del libro. Siamo in una città di confine, Trieste, e anche lo stesso collegio è un confine: c’è chi vive dentro le sue mura, apparentemente privilegiato, in realtà custodito sotto una campana di vetro. E poi c’è il mondo all’esterno dell’educandato, più energico, libero, capace di abbandonarsi alle emozioni, aperto e chiuso all’altro, ma comunque più vitale. Oggi ho l’impressione che buona parte del mondo sia piuttosto simile ai collegiali di cui scrivo, individualisti, poco curiosi, chiusi all’accoglienza dell’altro, forti del proprio privilegio, del benessere e della comodità rispetto a chi cerca una vita migliore. Restare al di qua del proprio confine è sempre uno stato dettato dalla paura e di paura è pieno il mondo. Abbiamo paura di essere caritatevoli con gli altri, così come abbiamo paura di abbandonarci all’amore. E se non c’è rischio non c’è vita.
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La prova del fuoco dei tre ragazzi si ha nel momento in cui dovranno uscire dal collegio. In queste situazioni quali possono essere i rischi di un impatto con la vita?
È un altro mondo, una vita totalmente nuova. Non posso sapere davvero come abbia vissuto questo impatto chiunque abbia fatto questa esperienza. Affidandomi al mio ricordo, la sensazione più netta è quella di disorientamento, sei poco pratico, non c’è più chi ha predisposto l’ora della levata o dello studio, devi imparare a gestire la libertà. Credo tutto dipenda dal coraggio che si ha di ricominciare e in fondo le cose assimilate in un educandato, come “il distacco”, sono anche positive per diverse situazioni che si presenteranno nell’età adulta. L’educazione in fondo, benché dura, la formazione culturale, la conoscenza, sempre che tu sappia sfruttarle, ti aiutano a sopravvivere meglio.
Il collegio si trova in una città (anche questa di confine) in cui si può riconoscere Trieste anche se non è mai esplicitato. Perché ha scelto di non nominarla?
Perché volevo creare un climax di sospensione nel tempo, volevo un ambiente e una storia che potessero essere collocati nel 1905 come nel 2018, per cui ho scelto di raccontare solo la vicenda esistenziale dei miei protagonisti, delle creature sospese in un tempo indefinibile, eppure riconoscibile anche nella sua attualità. Perciò i dati storici, come pure le collocazioni ambientali, avrebbero potuto in qualche misura inquinare la sensazione che questo tipo di emotività possa riguardare tutti, in qualsiasi periodo e qualsiasi città. Certo sono stata fortunata, Trieste è perfetta per questi contesti, una città fuori dal tempo, un ossimoro geografico, identitario, linguistico, una città magica che rimane sospesa in una sua idealità mai risolta.
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Per la prima foto, copyright: Daniel Spase.
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