L’effimero e l’eterno. “Grand Hotel Europa” di Ilja Leonard Pfeijffer
Grand Hotel Europa, edito da Nutrimenti nella traduzione di Claudia Cozzi, è il nuovo romanzo dell’olandese Ilja Leonard Pfeijffer e racconta le vicende dello scrittore Ilja Leonard Pfeijffer che si ritira nel Grand Hotel Europa, perché, scrive Ilja, «dovevo fare ordine nei ricordi che mi avevanofatto fuggire come uno sciame di api furibonde e che mi impedivano di pensare chiaramente».
In questo hotel facciamo la conoscenza di personaggi memorabili, il maggiordomo Montebello, Yannis Volonaki, Patelski, Abdul, Albane, Wang e la misteriosa signora proprietaria.La voce narrante ci porta nel passato prossimo, e imperfetto, di una storia d’amore del protagonista – la relazione un po’ burrascosa ma intensa con Clio, storica dell’arte e studiosa di Caravaggio – e nel passato remoto della tradizione artistica europea nei confronti della quale lo scrittore non nasconde la sua ambivalente considerazione: «L’Italia è strangolata dal suo passato. È quello che succede quando hai una storia così ricca» e l’Europa intera è un continente vecchio e soffocante di storia e cultura. La trama del romanzo è tanto semplice quanto ben congegnata e mescola sapientemente una linea intimistica che narra l’amore con Clio, la storia di Abdul, portiere dell’hotel, le schermaglie con la poetessa Albane, l’incontro con la lolita americana Memphis, a digressioni nel campo dell’arte, della sociologia del turismo, dell’economia («Viviamo, che ci piaccia o no, in un’economia di libero mercato»), della storia d’Europa col suo passato ricco e sfolgorante contrapposto al presente di miseria.
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Le lunghe tirate sul turismo e i suoi effetti nefasti, «Il turismo distrugge ciò da cui viene attratto» dice il colto Patelski, sono piacevoli racconti di luoghi, tanti e diversi, che testimoniano un’epoca di turismo inteso come fuga da sé stessi alla ricerca di una presunta autenticità locale. Venezia spicca: «A Venezia vivevamo in uno zoo, dove i visitatori non mostravano nessuno scrupolo a osservare a bocca aperta i residenti e a filmare e fotografare il loro sorprendente comportamento.»
Un romanzo denso che mette in scena anche un giallo artistico: la ricerca dell’ultimo quadro di Caravaggio, un’indagine che diventa il gioco che terrà legati fino alla fine Clio e il protagonista: «Era il gioco che ci legava, perché non si gioca.»
Con un ricco fraseggio che ricorda certe pagine di Aldo Busi, l’autore alterna dialoghi ironici, divertenti, malinconici, a descrizioni minuziose, dagli abiti alle statue di Skopije, alle opere dell’ultima mostra di Hirst, il cui gradevole puntiglio descrittivo va a braccetto con la riflessione sull’arte contemporanea e il suo rapporto con la classicità che, pur essendo fonte di ispirazione, è anche spesso castrante e «non lascia spazio per niente di nuovo»; non mancano scene di sesso esplicite: «Con la gonna a mo’ di cintura intorno alla vita, si calò con la fica bagnata sul mio cazzo»; riferimenti ipercolti e citazioni latine: «Huc nimium brevis flores amoenae ferre iube rosae dum res et aetas patiuntur.»
Uno strano e spumeggiante rapporto, in Grand Hotel Europa, quello tra immagine e scrittura, musica, ambiente interiore, romanzo e film, che è pure un lungo, sotterraneo dialogo tra il lettore e l’autore: «Consentitemi di raccontare succintamente il seguito della storia» e un continuo slittamento intertestuale tra pagina scritta e vita reale che ci dà l’impressione di uno streaming letterario – «Mi verrebbe quasi il sospetto che voi due sappiate che il romanzo che sto scrivendo qui al Grand Hotel Europa sta volgendo al termine» scrive nelle ultime pagine – farcito di riferimenti alle altre opere dell’autore. Ma non si dimentichi che il sottile gioco con la memoria può oltrepassare il limite della pagina e inglobare la vita vissuta: «Se lei scrive la mia storia, io potrò dimenticarla» dice, malinconico, Abdul, ripensando alla sua odissea di giovanissimo immigrato e la presenza dello scrittore è sotto i nostri occhi per eclissarsi (ricorda in questo senso il romanzo di Houellebecq, La carta e il territorio), e ci domanda, l’autore, se, oltre all’oblio dei nostri dolori, e dei nostri deliri, la scrittura non possa essere una sottile, plateale, forma di vendetta («Scrivi mai per vendetta?» dice Memphis) o una necessità dettata dall’urgenza di raccontarci delle storie: «Le storie danno significato alla vita e derivano quel significato da altre storie» (mi viene in mente Jonathan Coe deLa banda dei brocchi: «Serve a qualcosa scrivere delle storie?», traduzione di Roberto Serrai).
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Il romanzo ci conduce, dopo 607 pagine, a un finale inatteso: «Quello che si cerca è spesso più vicino di quanto non si pensi» dice il maggiordomo Montebello e una sorpresa conclusiva si accompagna al desiderio e a una scoperta: il Grand Hotel Europa è anche una metafora dell’Europa e Grand Hotel Europa non è solo un bel romanzo!
Per la prima foto, copyright: Jakob Braun su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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