“L’astuzia della volpe”, tra retroscena, un eroe impavido e fine della fiaba storica
L’astuzia della volpe è l’ultimo atto, l’ultimo intreccio e l’ultimo libro della trilogia Dietro la tenda, edita da Parallelo 45 e forgiata dal duo Maura Maffei e Rònàn U. Ó Lorcáin.
È l’atto dovuto ai lettori. Per come s’era concluso il secondo libro, l’acquolina in bocca era rimasta un po’ a tutti. Troppe tele narrative erano state intessute ed era ora che venissero dipanate.
Sarà meglio dirlo subito: questo romanzo non può essere letto separatamente dagli altri due. È indubbiamente vero che, più volte, il narratore riprende ciclicamente riferimenti al trascorso degli eroi, ma senza le conoscenze degli antefatti precedenti non è semplice comprendere alcuni stacchi narrativi.
Dove eravamo rimasti?, è questo il titolo della prefazione al primo capitolo. Infatti, dove eravamo rimasti?
Nella verdeggiante Connemara (Irlanda Occidentale) due famiglie fra loro in contrapposizione religiosa, gli anglicani Ó Cléirigh e i cristiani Ó Brolcháin, vivono secondo le leggi penali dell’isola britannica. I primi sono sotto la protezione delle autorità locali, in quanto praticanti la religione ufficiale, mentre i secondi vivono clandestinamente dentro una falegnameria, che in realtà nasconde una colonna di dragoni e papisti, con la missione di consentire le celebrazioni ecclesiastiche della comunità cristiana. Dato il rischio elevato di persecuzione religiosa, la famiglia Ó Brolcháin si pone sotto la protezione podestarile del sacerdote anglicano Hugony Newman. Per una casualità, due dei discendenti di questi rami familiari, Labhoise, la figlia di Colla Ó Cléirigh (nel testo si può trovare nella variante inglese Colla O’Clare), e Bran, il soldato discendente degli Ó Brolcháin, si innamorano, ma il loro matrimonio è avversato dal padre di lei e non è possibile per le leggi dello Stato Britannico. La situazione porta l’irreprensibile colonnello a una crisi spirituale ed esistenziale.
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L’attrattiva maggiore di questo terzo episodio è che vengono svelati retroscena sorprendenti e inaspettati. Soprattutto emerge la magnificente figura del reverendo Newman. Era rimasto in disparte nel primo episodio se non per le sue azioni da benefattore, era sbucato fuori dalla narrazione nel secondo come confessore amorevole (e forse innamorato) di Labhaoise e come macchia nera della famiglia Ó Brolcháin in perenne contrasto di vedute con il colonnello Bran; ora, diventa lui la figura centrale di tutta la narrazione, si prende il suo spazio e si comporta da eroe (qualcosa in più dell’aiutante delle fiabe di Pope) in mezzo alla tensione amorosa e religiosa fra la famiglia irlandese e il nemico acerrimo Colla Clare.
È questo il punto di forza maggiore del terzo libro. Il lettore è ammaliato da come quest’uomo da protettore subdolo (secondo molti componenti della famiglia ospitante) diventi amico, fratello e vero e proprio taoiseach, nella tradizione celtica il guerriero-capo tribù. Innanzitutto da questo ruolo inedito (sia per lui sia per una famiglia di stirpe cristiana) trae maggior convinzione delle proprie qualità, muta da giovane esuberante a maturo carismatico, soffre e si pente, si duole per la moglie morta (la sempre compianta Pádraigín Ní Bhrolcháin) e si scuote, mette se stesso al servizio degli altri, riscopre il suo passato, lo riscatta e salva la sua nuova famiglia con un’astuzia geniale.
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L’astuzia della volpe non è quella dell’arguto e diabolico Colla Clare, ma è l’ingegno e l’intelligenza di chi davanti al prorompere del pericolo trova il modo di ingannare gli altri. È un cristiano Dagda, dio della giurisdizione, del tempo e dei campi, musicista incantatore con la sua arpa, eroe dei cicli mitici irlandesi. È Hugony o Ug a decidere cosa è bene e cosa è male per gli altri, è capace di perdonare l’omertà del complice che vide bruciare sua moglie e non interviene e agisce sempre secondo rettitudine divina.
Come ci aveva anticipato Maura Maffei, la trilogia in questione s’ispira a una terna di musica sinfonica: allegro – adagio – allegro. Attenzione, tuttavia, l’ultima sinfonia si avvicina più al valore che assunse nella stagione del Romanticismo musicale che al tempo dell’allegro vero e proprio. Infatti, questo motivo musicale, secondo la definizione, è celere e vivace, mentre l’adagio ne è l’opposto. In questo caso il parallelo musicale-narrativo regge fino a un certo punto. In particolare questo episodio non presenta dinamismo e ritmo rapido, ma alterna fasi di riflessione teorica e sublimità spirituale a movimenti, corse a cavallo e concitamenti fulminei. È una corrente scoscesa e declive, un’alternanza che affascina sempre più il lettore immaginario. Non serve tradurre (si ringraziano gli autori per le note linguistiche) la dialogicità scritta in lingua gaelica, perché la comprensione del significato è buona e non tange nemmeno il fascino incantevole di questa Irlanda di fine Settecento. Inoltre, come viene indicato nella nota finale dagli autori, si trasmette maggiormente quel senso di fierezza, di spontaneità, intensità passionale e nobile orgoglio delpopolo irlandese.
Il contesto del Connemara è reso in maniera molto realistica: paesaggi uggiosi, radure soleggiate, sorgenti fresche, cieli affrescati, lune rischiaranti e notti oscure.
Una scelta stilistica questa che sposta il romanzo da una possibile collocazione di genere feuilleton a un livello di letterarietà poetica e suggestionante. C’è una scelta shakespeariana degli aggettivi, che sono accurati, preziosi e atti a tinteggiare il contesto spaziale del romanzo.
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D’altronde, lo stesso maestro inglese è una vera e propria bussola interpretativa. Infatti verso la conclusione del romanzo, sarà la messinscena di Otello a sintetizzare gli idonei ruoli di tutti i protagonisti: Bran potrebbe essere Otello, Labhoise Desdemona e il reverendo Hugony Iago. Perché proprio questo personaggio ipocrita? Perché lui stesso nello svolgersi del suo percorso si riscopre uno Iago, che ha saputo liberarsi dal demone della debolezza umana, rendersi salvifico per i suoi protetti e saper trovare nella Fede il sorriso della vita. Non perde mai la sua fiducia cieca in Dio ma, se prima c’era l’orgoglio a sostenere la missione di cui era stato incaricato, ora c’è la pietà di Enea, la Fede di San Paolo e la convinzione che nel suo ruolo bisogna esser santi e non eroi. Questo significa amare la Croce, a cui ha votato la propria vita. Solo chi la trova nel cuore può vivere serenamente il proprio futuro e rivalutare come accidentale (seppur sofferente) il proprio passato.
Quest’opera è connotabile come una fiaba, per l’aspetto apparente di una storia fra innamorati: un dragone valoroso, la bella dama affascinante e un’ambientazione verdeggiante e favolosa, per l’appunto quella dell’isola di Smeraldo. In apparenza, perché dietro la tenda metaforica del fiabesco, si cela la storicità di un vissuto, un premuroso lavoro di raccolta documentaria e una storia, quella irlandese, che è testimone delle Leggi Penali e della clandestinità che vessò per secoli i cattolici cristiani.
Eppure, nella presenza centrale del reverendo Hugony c’è la soluzione per dissolvere secoli di diatribe teologiche, persecuzione, torture, e attentati, arrivando al sangue versato di oggi:
«A Dio non importa quale sia il mio aspetto o la mia veste; Dio cammina al mio fianco, sempre, se lo cerco con cuore sincero, se desidero il bene che Lui ci ha insegnato ed esige da noi, se pratico la giustizia, se perseguo la bontà e se vivo con umiltà al suo cospetto».
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Eccola la soluzione di tolleranza religiosa e di comprensione umana a cui porta alla fine del suo percorso il romanzo L’astuzia della volpe di Maffei e Lorcáin.
Per la prima foto, copyright: Katerina Bartosova.
Per la terza foto, copyright: Elias Ehmann.
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