L’arte senza stile, la scelta di Samuel Beckett
Fra le tante fotografie scattate a Samuel Beckett, una in particolare porto sempre nel mio taccuino mentale. È un primo piano del 1930, Beckett aveva 24 anni, il suo volto lungo era meno scavato e i capelli bianchi che sfuggono a ogni presa, con cui siamo abituati a immaginarlo, erano scuri e incastrati nelle maglie di una brillantina che avrebbe placato qualsiasi terremoto emotivo si stesse scatenando negli occhi del futuro drammaturgo irlandese. Nello scatto Beckett indossa occhiali tondi dalla montatura dorata con i quali sembra guardare attraverso l’obiettivo, alla ricerca di qualcosa che il suo Paese e forse la stessa scrittura, così come allora era concepita, non riusciva ancora a dargli. Qualcosa che per lui era importante, necessario, anche se forse non sapeva ancora cosa fosse.
Mi piace pensare che anche i grandi uomini siano dotati di una buona dose di incertezza e di paura da ignorare, altrimenti dove sarebbe la loro grandezza? In quella foto Beckett era alla vigilia di un cambiamento che avrebbe segnato tutta la sua vita e la nostra come lettori. Studiava al Trinity College di Dublino, ma aveva già in mente la creazione del Concentrismo, movimento letterario fondatoda Beckettsotto lo pseudonimo di Jean du Chas che metteva sotto accusa il mondo accademico irlandese.
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Guadando bene nei suoi occhi, possiamo intravedere i riflessi di Londra, dove Beckett arriva nel 1931, sovrapposti a quelli della città che sarebbe diventata la sua nuova patria: Parigi. È qui che scrive il suo primo romanzo, Dream of Fair to Middling Women, che troverà una pubblicazione solo dopo la sua morte all’inizio degli anni Novantadel Novecento. Ed è qui che durante la seconda guerra mondiale inizia a intessere relazioni con James Joyce, Marcel Duchamp e Alberto Giacometti, dichiarando di preferire senza dubbio «la Francia in guerra piuttosto che l’Irlanda in pace».
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Ma sarà in un viaggio di ritorno da Dublino a Parigi, dopo essere andato a trovare sua madre, che Samuel avrà quella che lui stesso definirà «un’epifania», decidendo che la sua strada da quel momento in poi sarebbe stata quella dell’impoverimento del linguaggio, «del sottrarre piuttosto che dell’aggiungere». Per questo Beckett sceglierà di passare dall’inglese al francese, convinto che scrivere in una lingua straniera potessefarloarrivare a quello che è ormai il suo obiettivo stilistico: «scrivere senza stile […] liberarsi dalla terribile prosa dei romanzi del Novecento». Liberarsi dalle logiche narrative e stilistiche che la lingua madre gli imponeva per arrivare dove i suoi occhi di ventiquattrenne già volevano arrivare: ripulire il personaggio da qualsiasi necessità di trama che inevitabilmente distoglieva l’attenzione del lettore dalle paure e dallo smarrimento che tutti noi spingiamo nel fondo appiccicoso della nostra anima.
Sì, avrei voluto essere fra quei parigini che nel 1953 andarono a vedere uno strano, stranissimo spettacolo di uno sconosciuto autore irlandese al Théâtre de Babylone. Lo spettacolo in questione era En attendant Godot di Samuel Beckett che aveva trovato così una via di fuga dal sistema romanzo per approdare a un «luogo speciale per poter esplicitare il rapporto fra l’esistenza umana e i detriti del mondo[1]». Un luogo dove lo tsunaminarrativo che Beckett auspicava si è già verificato, non bisogna più far accadere nulla, andare da nessuna parte. Per questo i suoi personaggi sono spesso sotterrati (Giorni felici), ingabbiati, menomati (Finale di partita), tutto viene riportato alla parola. Parola che i personaggi beckettiani usano asciugata di ogni riferimento al contesto, al “dopo”, per cercare di osservare l’inosservato, ciò che nel nostro vivere quotidiano ignoriamo, con il solo, maniacale obiettivo, che lo stesso Beckett fa esplicitare dal protagonista de Il nastro di Krapp: «cerca di essere. Cerca di essere!».
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A 110 anni dalla nascita di quest’uomo e a 86 dal momento in cui è stata scattata la foto da cui abbiamo iniziato il nostro viaggio di scavo su Samuel Beckett, trivellatore senza sosta del linguaggio, pronto a raccogliere ciò che «si annida al suo interno» quando inizierà a trasudare, sono ancora tanti i ‘forse’ che percorrono la mente del lettore o dello spettatore di fronte alle opereche il grande drammaturgo irlandese ci ha lasciato.
“Forse” necessari, “forse” che sembrano nascondere anche l’influenza di Leopardi, di cui il lettore sentirà spirare fra le pagine dei testi beckettiani l’«immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?» da il Dialogo della Natura e di un Islandese. “Forse” terapeutici perché ci spingono a misurare il nostro contributo al mondo e il significato del nostro viaggio.
[1]Giancarlo Cauteruccio, Samuel Beckett – Nel buio del teatro accecante, edizioni Clichy Firenze 2016.
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